Dibattiti

3 | Justin E. H. Smith / Paolo Pecere

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viralità / immunità: due domande per interrogare la crisi

 

 

Paolo Pecere – L’epidemia del Coronavirus ha colto impreparati i governi europei, la cui prima reazione è stata quella di difendere lo stile di vita normale e la continuità del sistema produttivo, e solo dopo di considerare misure alternative. Mi ha colpito una simile impreparazione nelle reazioni di alcuni filosofi e intellettuali. Mentre leggevo freneticamente dati e articoli per farmi un’idea della situazione, Giorgio Agamben ha pubblicato un post intitolato  “L’invenzione di un’epidemia” (22 febbraio). Agamben ha sostenuto – applicando all’analisi della situazione la sua nozione prediletta – che “i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni”. Il tutto, per far fronte a quella che sembrerebbe essere “una normale influenza”. In post successivi Agamben ha rincarato la dose, sostenendo che “il nostro prossimo è stato abolito” e presentando i disaccordi tra gli scienziati sulla reale entità del rischio epidemico come conflitti religiosi. Più della disinformazione e della grossolana vaghezza di questa reazione, vorrei rilevare una notevole coincidenza: lo stesso “normale funzionamento”, la cui sospensione è presentata da Agamben come l’obiettivo di una strategia occulta, è stato difeso dai leader neoliberali e negazionisti, come Trump e Bolsonaro. 

L’epidemia mi appare sia come una catastrofe sanitaria ed economica, sia come un’opportunità di ripensare quel sistema che – è bene ricordarlo – era già caratterizzato da profonde disuguaglianze dalla prospettiva di una catastrofe ecologica mondiale. Da questo punto di vista, l’interruzione forzata della normalità mi ha fatto venire in mente che la parola “epidemìa” significava originariamente, in Greco, qualcosa che “arriva nel paese” e che può sopraffare: si poteva trattare di una malattia, ma anche di un dio come Dioniso, che liberava la coscienza individuale dai freni che inibiscono la vita.

 

Justin Smith - Ricordo che un tempo, almeno in inglese, la mia lingua madre, il termine più comune per descrivere la peste bubbonica, l’AIDS e così via era «epidemia». In anni più recenti, invece, è diventato più di moda, e in fin dei conti più corretto, dire «pandemia». Come amante e conservatore del linguaggio arcaico, ho resistito a lungo a questo cambiamento, che però ci offre almeno l’opportunità di approfondire la riflessione che tu, Paolo, hai iniziato sul significato delle parole. Se un’epidemia è qualcosa che “colpisce” o «arriva addosso» a un popolo, come nel libro dei Giudici quando Dalila grida a Sansone: «I filistei ti sono addosso!» («The Philistines be upon thee»), una «pandemia», invece, è semplicemente ciò che riguarda «tutto il popolo». A complicare le cose, oggi si parla spesso dell‘ «epicentro» della pandemia: un termine improprio che in senso stretto non ne denota il vero centro, bensì la sua collocazione al di sopra del centro. È un termine che non avrebbe mai dovuto essere preso in prestito dalla sismologia, dove il centro è effettivamente al di sotto della superficie della terra e l’epicentro in superficie, e trasferito all’epidemiologia, dove conta solo la superficie, che è dove risiedono gli esseri umani. (New York, da dove scrivo ora, è stata recentemente dichiarata «epicentro dell’epicentro» dell’epidemia: se solo fossimo al di sopra del luogo che è a sua volta al di sopra del centro, ho pensato, potremmo farci scivolare addosso tutto quanto!) Ma non possiamo impedire questi prestiti, così come non possiamo impedire alla gente di volare da Wuhan a Milano, da Milano a New York, o da New York a Wuhan; né possiamo impedire ai mercanti di vendere un pangolino in gabbia al mercato, proprio accanto a una gabbia piena di pipistrelli che in natura non si trovano nell’ecosistema del pangolino e che non hanno sviluppato un modo naturale di condividere lo stesso spazio. Si possono prevenire cose del genere? Gli esseri umani cambiano quando è necessario, e le politiche governative spesso sembrano più un ripiego di necessità che non una vera e propria scelta. È troppo presto per dire quali saranno le conseguenze politiche a lungo termine del virus. Di certo, i regimi più opportunisti cercheranno di sfruttare il più possibile lo stato d’eccezione. Ma i loro piani avranno vita breve. Le trasformazioni più durevoli saranno dettate dalla natura, e se siamo intelligenti da questa esperienza impareremo che è la natura il vero agente e creatore della storia umana.

 

Paolo Pecere – L’ultima cosa che hai detto è cruciale: si tratta prima di tutto di un evento naturale. Io penso che sia anche un evento storico, nella misura in cui la reazione delle società dipende dalla cultura e dalle istituzioni politiche. Ma il suo aspetto più straordinario è naturale: si tratta di un evento globale, senza precedenti nella storia per la sua capacità di incidere sugli individui in tutto il pianeta. Questo ha dato l’impressione che – contro l’idee della “fine della storia” – la storia possa essere a un punto di svolta. Rebecca Solnit ha giustamente osservato: “Cose che si ritenevano inarrestabili si sono fermate, a cose che si ritenevano impossibili – come estendere i diritti dei lavoratori, liberare prigionieri e spostare trilioni di dollari attraverso gli Stati Uniti – sono già accadute.” Ma vorrei essere chiaro: non sono d’accordo con quelli che stanno salutando l’epidemia come un evento positivo, come Slavoj Žižek, secondo cui essa starebbe producendo la diffusione di “un nuovo senso comunitario”. Piuttosto, come suggerisce un intervento di Arundhati Roy, si ha l’impressione che l’arresto improvviso della vita normale possa essere positivo: in effetti, si tratta di un’impressione estetica: “chi non sarebbe elettrizzato dall’aumento dei canti di uccelli nelle città, dai pavoni che danzano agli incroci o dal silenzio del cielo?” In realtà, gli animali non stanno riprendendo il controllo, e non è il momento di consolarsi con questa illusione di un nuovo inizio da film catastrofico. Non è neanche sicuro che l’emergenza risulterà essere, come sostiene Roy, una “porta, un passaggio da un mondo altro”. Ma Roy ha ragione – come Rebecca Solnit – che la rottura della normalità “offre un’occasione di ripensare la macchina da fine del mondo che abbiamo costruito”.

Potremmo in effetti pensare all’interruzione temporanea dei lockdown globali come a un “esperimento” dell’impatto di una catastrofe globale, come quella ecologica la cui imminenza è stata infruttuosamente dibattuta per anni. Di nuovo, non vedo in ciò una prospettiva positiva, ma penso che la rapidità dell’epidemia sia riuscita a catturare l’attenzione individuale laddove gli effetti del cambiamento climatico sono troppo lenti per avere il dovuto impatto sull’apparato cognitivo umano. Questa forma naturale di trasmissione del virus è riuscita a lanciare un allarme globale attraversando ogni confine con più efficacia della rete con la sua presunta “viralità”. Dobbiamo aspettarci tempi difficili, in cui la disuguaglianza influirà profondamente sulle esperienze individuali, ma si dovrà considerare pure come diverse culture – da quelle più individualiste come le nostre a quelle in cui è più forte la dimensione comunitaria – potranno adattarsi ai mutamenti e, mediante la rete, intrattenere una conversazione globale su questa reazione. In questo senso la natura potrebbe veramente fare la storia, come dici: potrebbe costringere gli uomini a riorganizzare le proprie società nel contesto di una più vasta storia naturale.

 

Justin Smith - Mi aspetto, come te, che questo evento possa rivelarsi non tanto la fine della storia (si sono susseguiti tanti falsi allarmi che nel corso dei secoli hanno annunciato questa fine), quanto piuttosto il momento in cui, finalmente, agli esseri non umani è permesso di accedere alla storia e di essere riconosciuti come agenti della storia. Quando sentiamo notizie di coyote che vagano per le strade di San Francisco mentre gli esseri umani si chiudono in isolamento, per esempio, non bisogna pensare a un terrificante scenario post-apocalittico, ma che si tratti piuttosto di un capitolo di una sequenza infinita di lotte tra varie parti avverse, umane e non umane, che si contendono l’accesso alle risorse e al territorio. È solo da qualche secolo che noi umani siamo riusciti a costruire barriere e difese sufficienti per escludere efficacemente altre specie dalla nostra realtà sociale (a meno che non le lasciamo entrare in via eccezionale, come nel caso degli animali domestici), e questa esclusione ha reso possibile l’arrogante e spiccatamente moderna presunzione che la storia sia per definizione storia umana (ed è solo negli ultimi due secoli o giù di lì, va anche osservato, che la disciplina un tempo conosciuta come «storia naturale» si è esaurita). 

La scomparsa su larga scala di esseri umani dagli spazi pubblici, nell’ultimo mese, e la ricomparsa di agenti non umani in quegli stessi spazi, ha, almeno per chi di noi si interessa a fenomeni del genere, smascherato questa arroganza per quello che è. L’autore americano Alan Weisman ha scritto un libro significativo intitolato Il mondo senza di noi, in cui immagina cosa accadrebbe al pianeta, sia a breve che a lungo termine, se non ci fossero più esseri umani a controllare e ad ostacolare i processi naturali. Quello che vediamo in questo momento è un piccolo assaggio di una situazione del genere, pur senza una distruzione irreversibile della specie umana. E di questo assaggio penso che dovremmo essere riconoscenti. 

Nel frattempo, stiamo tutti a sbirciare fuori dall’interno delle nostre celle, per lo più attraverso la finestra di internet, e a meravigliarci della calma continuazione della vita non umana del pianeta. Essere bloccati al chiuso è strano. Sentiamo sempre più spesso dire, mentre la crisi si trascina, che è un «privilegio» poter rimanere a casa e rispettare le regole del distanziamento sociale, perché tante persone, trasportatori e non, non possono permettersi di farlo. Forse allora questo è il primo esempio, nella storia della moralizzazione umana, di un privilegio che è al contempo anche un dovere. Ad ogni modo, come aveva già intuito Robert Burton ne L’anatomia della malinconia, chi è rinchiuso in una cella o in un chiostro è idealmente pronto a guardare fuori e a comprendere il mondo, a prendere tutto come se fosse una rappresentazione teatrale. Sono curioso di vedere quali scoperte collettive faremo, allora, quando tutta l’umanità si troverà in clausura allo stesso tempo.

Paolo Pecere insegna la storia della filosofia all’università di Roma Tre. Ha pubblicato La filosofia della natura in Kant (Pagina 2009), Dalla parte di Alice. La coscienza e l’immaginario (Mimesis 2015), il manuale di filosofia La ricerca della conoscenza (Mondadori 2018, con Riccardo Chiaradonna) e i due romanzi La vita lontana (LiberAria 2018) e Risorgere (Chiarelettere 2019). Il suo libro Soul, mind and brain from Descartes to cognitive science: a critical history uscirà nel 2020 con Springer.

Justin E. H. Smith insegna storia e filosofia della scienza all’Università di Parigi 7 Denis Diderot. Nel 2019-20 è John and Constance Birkelund Fellow del Cullman Center for Scholars and Writers alla New York Public Library. Tra i suoi libri, Divine Machines: Leibniz and the Sciences of Life (2011), Nature, Human Nature, and Human Difference (2015), The Philosopher: A History in Six Types (2016), e Irrationality: A History of the Dark Side of Reason (2019), tutti pubblicati da Princeton University Press.


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Paolo Pecere - L’épidémie de coronavirus a pris au dépourvu les gouvernements européens, dont la première réaction a été de défendre le mode de vie normal et la continuité du système de production, et seulement ensuite d’envisager des mesures alternatives. J’ai été frappé de voir la même impréparation dans les réactions de certains philosophes et intellectuels. Alors que je lisais frénétiquement des données et des articles pour me faire une idée de la situation, Giorgio Agamben a publié un post intitulé «L’invention d’une épidémie» (22 février). Agamben a soutenu - en appliquant sa notion favorite à l’analyse de la situation - que «les médias et les autorités s’efforcent de répandre un climat de panique, provoquant un véritable état d’exception, avec de graves restrictions de mouvement et une suspension du fonctionnement normal des conditions de vie et de travail dans des régions entières». Tout cela pour faire face à ce qui semble être «une influence normale». Dans des posts ultérieurs, Agamben est allé plus loin en affirmant que «notre voisin a été aboli» et en présentant les désaccords entre scientifiques sur l’étendue réelle du risque épidémique comme des conflits religieux. Au-delà de la désinformation et du flou grossier de cette réaction, je voudrais souligner une coïncidence remarquable : le «fonctionnement normal» lui-même, dont la suspension est présentée par Agamben comme l’objectif d’une stratégie secrète, a été défendu par des dirigeants néolibéraux et des négateurs, tels que Trump et Bolsonaro.

L’épidémie me paraît à la fois une catastrophe sanitaire et économique et une opportunité de repenser ce système qui - il est bon de le rappeler - était déjà caractérisé par de profondes inégalités dans la perspective d’une catastrophe écologique mondiale. De ce point de vue, l’interruption forcée de la normalité m’a fait penser que le mot «épidémie» désignait à l’origine, en grec, quelque chose qui «arrive dans le pays» et qui peut bouleverser : il pouvait s’agir d’une maladie, mais aussi d’un dieu comme Dionysos, qui libérait la conscience individuelle des freins qui inhibent la vie.

 

Justin Smith - Je me souviens qu’autrefois, du moins en anglais, ma langue maternelle, le terme le plus courant pour décrire la peste bubonique, le sida, etc. était «épidémie». Cependant, ces dernières années, il est devenu plus à la mode, et finalement plus correct, de dire «pandémie». En tant qu’amateur et conservateur d’un langage archaïque, j’ai longtemps résisté à ce changement, mais cela nous donne au moins l’occasion d’approfondir la réflexion que vous, Paolo, avez entamée sur le sens des mots. Si une épidémie est quelque chose qui «frappe» ou «tombe» sur un peuple, comme dans le livre des Juges quand Delilah crie à Samson : «Les Philistins sont sur toi ! («Que les Philistins soient sur toi»), une «pandémie», en revanche, est simplement ce qui concerne «tout le monde». Pour compliquer les choses, on parle souvent aujourd’hui d‘ «épicentre» de la pandémie : un terme impropre qui, au sens strict, ne désigne pas le vrai centre, mais sa localisation au-dessus du centre. C’est un terme qui n’aurait jamais dû être emprunté à la sismologie, où le centre est en fait sous la surface de la terre et l’épicentre en surface, et transféré à l’épidémiologie, où seule la surface compte, c’est-à-dire là où résident les humains. (New York, d’où j’écris maintenant, a récemment été déclaré «épicentre de l’épicentre» de l’épidémie : si seulement nous étions au-dessus de l’endroit qui est lui-même au-dessus du centre, je me suis dit, on pourrait laisser tout cela glisser sur nous !)

Mais nous ne pouvons pas empêcher ces prêts, tout comme nous ne pouvons pas empêcher les gens de prendre l’avion de Wuhan à Milan, de Milan à New York ou de New York à Wuhan ; nous ne pouvons pas non plus empêcher les commerçants de vendre un pangolin en cage au marché, juste à côté d’une cage pleine de chauves-souris qui, dans la nature, ne se trouvent pas dans l’écosystème du pangolin et n’ont pas développé une façon naturelle de partager le même espace. Peut-on éviter de telles choses ? Les êtres humains changent quand c’est nécessaire, et les politiques gouvernementales semblent souvent plus être un repli de la nécessité qu’un véritable choix. Il est trop tôt pour dire quelles seront les conséquences politiques à long terme du virus. Il est certain que les régimes les plus opportunistes tenteront d’exploiter au maximum l’état d’exception. Mais leurs plans seront de courte durée. Les transformations les plus durables seront dictées par la nature, et si nous sommes suffisamment intelligents pour tirer parti de cette expérience, nous apprendrons que la nature est le véritable agent et créateur de l’histoire humaine.

 

Paolo Pecere - Le dernier point que tu as évoqué est crucial : il s’agit avant tout d’un événement naturel. Je pense que c’est aussi un événement historique, dans la mesure où la réaction des sociétés dépend de la culture et des institutions politiques. Mais son aspect le plus extraordinaire est naturel : c’est un événement mondial, sans précédent dans l’histoire pour sa capacité à affecter les individus dans toute la planète. Cela a donné l’impression que - contrairement aux idées de la » fin de l’histoire » - l’histoire se trouve peut-être à un tournant. Rebecca Solnit a observé à juste titre : «Des choses que l’on croyait impossibles à arrêter se sont arrêtées, des choses que l’on croyait impossibles - comme l’extension des droits des travailleurs, la libération de prisonniers et le déplacement de milliards de dollars à travers les États-Unis - ont déjà eu lieu. Mais soyons clairs : je ne suis pas d’accord avec ceux qui saluent l’épidémie comme un événement positif, comme Slavoj Žižek, qui affirme qu’elle entraîne la propagation d’un «nouveau sens de la communauté». Au contraire, comme le laisse entendre un commentaire d’Arundhati Roy, on a l’impression que l’arrêt soudain de la vie normale peut être positif : en effet, il s’agit d’une impression esthétique : «qui ne serait pas ravi par l’augmentation du chant des oiseaux dans les villes, la danse des paons aux carrefours ou le silence du ciel ? En réalité, les animaux ne reprennent pas le contrôle, et ce n’est pas le moment de se consoler avec cette illusion d’un nouveau départ comme dans un film catastrophique. Il n’est pas non plus certain que l’urgence se révélera être, comme le prétend Roy, une «porte, un passage vers un autre monde». Mais Roy a raison - comme Rebecca Solnit - de dire que la rupture avec la normalité «offre l’occasion de repenser la machine de fin du monde que nous avons fabriquée.

On pourrait en fait considérer l’interruption temporaire des confinements mondiaux comme une «expérience» de l’impact d’une catastrophe mondiale, à l’instar de la catastrophe écologique dont l’imminence a été débattue sans succès pendant des années. Là encore, je ne vois pas de perspective positive, mais je pense que la vitesse de l’épidémie a réussi à capter l’attention des individus là où les effets du changement climatique sont trop lents pour avoir l’impact nécessaire sur le système cognitif humain. Cette forme naturelle de transmission de virus a réussi à sonner l’alarme mondiale en traversant toutes les frontières plus efficacement que le réseau avec sa prétendue «viralité». Nous devons nous attendre à des temps difficiles, dans lesquels les inégalités affecteront profondément les expériences individuelles, mais nous devons aussi considérer comment les différentes cultures - des plus individualistes comme la nôtre à celles qui ont une plus forte dimension communautaire - pourront s’adapter au changement et, grâce au réseau, avoir une conversation globale sur cette réaction. En ce sens, la nature pourrait vraiment faire l’histoire, comme vous le dites : elle pourrait forcer les gens à réorganiser leurs sociétés dans le contexte d’une histoire naturelle plus large.

 

Justin Smith - Je m’attends, comme toi, à ce que cet événement se révèle être non pas tant la fin de l’histoire (il y a eu tant de fausses alertes au cours des siècles annonçant cette fin), mais plutôt le moment où, enfin, des êtres non humains sont autorisés à accéder à l’histoire et à être reconnus comme des agents de l’histoire. Lorsque nous entendons parler de coyotes errant dans les rues de San Francisco alors que des êtres humains sont enfermés dans l’isolement, par exemple, nous ne devons pas penser à un scénario post-apocalyptique terrifiant, mais plutôt qu’il s’agit d’un chapitre d’une suite sans fin de luttes entre plusieurs parties opposées, humaines et non humaines, qui se disputent l’accès aux ressources et au territoire. Ce n’est que depuis quelques siècles que nous, les humains, avons pu construire des barrières et des défenses suffisantes pour exclure efficacement d’autres espèces de notre réalité sociale (sauf si nous les laissons entrer exceptionnellement, comme dans le cas des animaux de compagnie), et cette exclusion a rendu possible la présomption arrogante et nettement moderne selon laquelle l’histoire est par définition l’histoire humaine (et ce n’est qu’au cours des deux derniers siècles environ, il convient également de noter, que la discipline autrefois connue sous le nom d‘ «histoire naturelle» s’est épuisée). 

La disparition à grande échelle d’êtres humains des espaces publics au cours du mois dernier et la réapparition d’agents non humains dans ces mêmes espaces ont, du moins pour ceux d’entre nous qui s’intéressent à ces phénomènes, démasqué cette arrogance pour ce qu’elle est. L’auteur américain Alan Weisman a écrit un livre important intitulé The World Without Us, dans lequel il imagine ce qui arriverait à la planète, tant à court qu’à long terme, s’il n’y avait plus d’êtres humains pour contrôler et entraver les processus naturels. Ce que nous voyons actuellement est un petit aperçu d’une telle situation sans destruction irréversible de l’espèce humaine. Et pour ce goût, je pense que nous devrions être reconnaissants. 

Pendant ce temps, nous jetons tous un coup d’œil hors de nos cellules, principalement par la fenêtre Internet, et nous nous émerveillons de la poursuite calme de la vie non humaine sur la planète. C’est étrange de se retrouver coincés à l’intérieur. Nous entendons de plus en plus souvent, à mesure que la crise s’éternise, que c’est un «privilège» de pouvoir rester chez soi et de respecter les règles de la distanciation sociale, parce que de nombreuses personnes, que ce soit des chauffeurs ou autres, n’ont pas les moyens de le faire. C’est peut-être le premier exemple, dans l’histoire de la moralisation de l’homme, d’un privilège qui est aussi un devoir. De toute façon, comme Robert Burton l’avait déjà pressenti dans The Anatomy of Melancholy, quiconque est enfermé dans une cellule ou un cloître est idéalement prêt à se tourner vers l’extérieur et à comprendre le monde, à appréhender les choses comme s’il s’agissait d’une pièce de théâtre. Je suis curieux de voir quelles découvertes collectives nous ferons, alors, quand toute l’humanité sera cloîtrée en même temps.

 

Paolo Pecere enseigne l’histoire de la philosophie à l’Université de Roma Tre. Il a publié La filosofia della natura in Kant (Pagina, 2009), Dalla parte di Alice. La coscienza e l’immaginario (Mimesis, 2015), le manuel de philosophie La ricerca della conoscenza (Mondadori 2018, avec Riccardo Chiaradonna) et deux romans La vita lontana (LiberAria en 2018) et Risorgere (Chiarelettere, 2019). Son livre Soul, mind and brain from Descartes to cognitive science: a critical history, sortira en 2020 chez Springer. 

Justin E. H. Smith est professeur d’histoire et de philosophie de la science à l’Université de Paris 7 Denis Diderot. En 2019-2020 il travaille au Cullman Center for Scholars and Writers à la New York Public Library (chaire John and Constance Birkelund). Parmi ses publications : Divine Machines: Leibniz and the Sciences of Life (2011), Nature, Human Nature, and Human Difference (2015), The Philosopher: A History in Six Types (2016), e Irrationality: et A History of the Dark Side of Reason (2019), tous publiés par la Princeton University Press.