Dibattiti

7 | Mathieu Potte-Bonneville - Emanuele Coccia

Condividilo!
viralità / immunità: due domande per interrogare la crisi

 

 

Mathieu Potte-Bonneville

Caro Emanuele, questa lettera ti arriva più tardi del previsto – in questi giorni tutto mi impegna più a lungo del previsto; i miei propositi si sgranano, si disfano, si riscrivono man mano che gli impegni si confondono nella ripetizione di giorni identici, e ogni tentativo di distinguere con fermezza un prima, un durante, un dopo si scontra con la realtà di una crisi in cui il tempo non assomiglia a quello dei nostri orologi. Di qui una serie di illusioni o di errori di prospettiva: con una costanza che sarebbe burlesca se non fossimo in lutto, continuiamo a cercare dei picchi nel tentativo di appiattire una curva, ragioniamo per stagioni quando non ci sono indizi che l’autunno sarà, dal punto di vista della salute, sostanzialmente diverso dall’estate, richiamiamo tutta la combriccola dei ricordi di scuola per immaginarci zaino in spalla in un improbabile “primo giorno dopo» quando c’è chi non si è mai disimpegnato, e non ha smesso di muoversi là fuori. A questo riguardo, del resto, mentre si sfilacciava la coscienza comune del tempo sociale, lo spazio dal canto suo irrigidiva la frontiera, producendo nella parte di umanità impegnata a rimanere a casa, dove pure la promiscuità poteva essere insopportabile, un’angoscia di tornare a uscirne, la cui ottusa intensità supera di gran lunga il semplice timore della malattia (non si scatenano impunemente le pulsioni asociali, la tentazione di ritirarsi una volta per tutte dal contatto e dallo sguardo). Insomma: sono in ritardo.

Questo ritardo è dovuto anche alla difficoltà che c’è, in questi giorni, a pensare e a scrivere. Una difficoltà che non è semplicemente dovuta alle solite, e peraltro legittime, ragioni (la vanità di pensare quando la morte è in agguato, il lusso di scrivere quando il crollo economico incombe). Il fatto è anche che sospetto ogni pensiero che mi viene in mente, un po’ troppo facilmente, di voler rinnovare un quadro teorico antecedente alla crisi stessa, che temo poi leggerò solo come un’illustrazione o una convalida di tesi precedenti, nel modo pomposo o vanaglorioso del «te l’avevo detto». Allo stesso tempo, neppure l’altro ramo dell’alternativa – l’atteggiamento di chi rifiuta l’ostacolo, di chi si accontenta di brontolare con fatica di fronte alla somma di ciò che viene oggi pubblicato a titolo di commento o di interpretazione – neppure questa posizione di ripiego è soddisfacente: si sente un po’ troppo l’aristocrazia frustrata, una lacuna tipica che rende i filosofi simili all’alpinista che, giunto in vetta, constata con delusione che un gruppo di turisti lo ha preceduto, privandolo della solitaria contemplazione del paesaggio. Guardarsi dalla viralità del già-detto e al contempo anche dai propri riflessi immunitari, è faticoso. Soprattutto – almeno questa è la regola che mi sono dato, la contorsione a cui ho cercato di piegarmi per uscire dall’impasse – questo mi costringe a cercare di individuare ciò che, nella crisi che stiamo attraversando, sconcerta o destabilizza quel che credevamo di dover pensare, e scompone il quadro degli interrogativi che la comunità filosofica si stava ponendo, appena qualche mese fa, sulla realtà. In questa caccia a ciò che è stato un po’ incrinato nei nostri modi di pensare, spero che i contorni della realtà siano riconoscibili in negativo, attraverso l’effetto di interruzione che imprimono alle nostre azioni e ai nostri discorsi. Essere fedeli, in un certo senso, all’approccio per tentativi di Artaud, nella sua corrispondenza con Jacques Rivière: «C’è un qualcosa che distrugge il mio pensiero».

Sulla mappa di queste scosse, c’è una preoccupazione che forse ti dice qualcosa. In un certo senso, il sorgere di questa epidemia, le tragedie che provoca e la risposta globale che ne deriva, ci colpiscono come un dramma nel bel mezzo di un banchetto nuziale. Da alcuni anni, in tutte le discipline – dall’antropologia alla storia, dalla filosofia alla letteratura – un movimento su larga scala, come non si vedeva nel pensiero contemporaneo dagli anni Settanta, si lavora collettivamente per abbattere le barriere e gli steccati che separano la nostra umanità dal resto degli esseri viventi, per immaginare le modalità di convivenza e i diversi modi in cui ci relazioniamo con il mondo a un livello di realtà in cui non ci sia mai più differenza o gerarchia fissata a priori. Pensa: avevamo messo topi e cyborg nella storia delle donne (Donna Haraway), cavalli da guerra in quella del conflitto del 1914-1918 (Eric Baratay), morti nella vita quotidiana dei vivi (Vinciane Desprets), patate dolci nelle famiglie degli indiani Achuar (Philippe Descola), cose nel Parlamento (Bruno Latour), piante in seno all’Essere stesso, la loro sintesi clorofilliana che intercede per noi, nel tuo lavoro. Lo scorso settembre è stato pubblicato in Francia uno straordinario racconto in cui l’antropologa Nasstasja Martin racconta come, attaccata da un orso in Siberia e con il volto stretto tra le sue fauci, aveva visto la sua vita di sopravvissuta segnata dall’imperativo di dover accogliere in sé, nella propria storia e nella propria consapevolezza di sé, una parte dell’orso, come lei stessa aveva indubbiamente lasciato in lui una parte di sé. È il testo più commovente che avessi letto da molto tempo: e oggi non so più cosa fare con questa emozione.

Perché qui entrano in gioco le mie preoccupazioni. Di questo sforzo intellettuale per rivedere la nostra comprensione del rapporto tra esseri umani e non umani, l’epidemia di SARS COV-2 fornisce un’immensa e magistrale conferma: d’ora in poi sarà difficile contestare che un virus sia un attore sociale, o negare ai pipistrelli il diritto di autoinvitarsi al tavolo dei protagonisti della storia del mondo. Ma la conferma è, in un certo senso, così impressionante che lascia il pensiero stesso sconcertato e disarmato. Perché, allo stesso tempo, la reazione delle società umane – e non c’è dubbio che io non le biasimo! – non consiste, ovviamente, nell’accogliere il virus come un fratello, ma nel riorganizzarsi in tutto e per tutto per adempiere all’imperativo della protezione, al punto che l’intensità di questa stessa reazione lascerà tracce, tracce autoimmuni, postumi di ogni tipo (economici, di sicurezza, geopolitici, ecc.). E di questa reazione, di questi sforzi collettivi per stabilire una frontiera radicale, per erigere un muro, non so cosa possano fare esattamente i nostri pensieri accoglienti verso la molteplicità dei non umani, né se ci permettano di considerarla diversamente. In altre parole, mi sembra che si sia aperta una frattura tra, diciamo, l’affermazione speculativa di un destino comune per tutte le cose e l’accomodamento pratico della loro separazione. Questa linea di demarcazione è, per me, un problema filosofico, ovvero: può la filosofia accontentarsi di riunire quel che la pratica separa, senza cadere in ciò che il marxismo ci ha insegnato a riconoscere come una posizione idealistica? Ma questa linea di demarcazione è anche un problema politico. Dopotutto, il movimento intellettuale di cui parlavo, tutto questo sforzo di rivalutare la nostra posizione nel mondo, mirava anche a gettare le basi per una pratica e una politica diverse, in ambito ecologico e ambientale: da questo punto di vista, non trovo rassicurante il modo in cui, almeno in Francia, i movimenti ecologisti hanno moltiplicato le loro osservazioni sul «mondo del dopo», ma sono rimasti quasi del tutto in silenzio nel dibattito pubblico su come affrontare la crisi stessa. Molti vedono questa crisi come un’opportunità per ripartire in modo diverso, per adottare modi di fare le cose, di produrre, ecc. all’altezza della sfida ambientale. Forse: ma la stessa strategia di contenimento, questa riaffermazione su scala industriale della barriera che separa il socius da tutto ciò che lo circonda, è di per sé una sorta di feroce negazione di ogni tentativo di agire diversamente. Nella sua prefazione all’opera completa di Spinoza, Roger Caillois si chiede «se il Dio dell’Etica sia stato in grado di dimostrare l’esistenza dell’uomo». Vengo a una questione simile: se l’epidemia dà motivo di preoccuparsi per il non-umano, come evitare di vedere questo motivo allontanarsi dal nostro stesso orizzonte, rispedendoci a mani vuote alle nostre solitudini fobiche? Ma qui mi taccio – mi chiedo se e come tu affronti queste domande.


 

Emanuele Coccia

Caro Mathieu, è ora la mia risposta ad arrivarti in ritardo e me ne scuso profondamente. Ho vissuto l’ultimo mese in uno stato di sonnambulismo in veglia, come se fosse stato un unico giorno, o un unico sogno, senza soluzione di continuità. Del resto la casa è per definizione lo spazio del sogno, il luogo in cui l’esperienza quotidiana si disfà nell’oscurità, si mescola ai desideri più inconfessati e ridisegna il vissuto in qualcosa che si può declinare all’ottativo o al condizionale, ma mai al passato prossimo. È come se fosse impossibile avere un’esperienza diversa dal sogno una volta che ci si chiude dentro casa. E la quarantena, l’ingiunzione a restare a casa, a disassociarsi dallo spazio pubblico, urbano, cittadino, è stata involontariamente l’ingiunzione a sprofondare ciascuno nel proprio sogno: rendere impossibile un’esperienza comune e perdersi tra gli schermi delle proprie proiezioni. Non c’entra nulla l’adozione di mezzi di teleriunione. Vivere sepolto nei propri sogni (o nei propri incubi) è quello che ci rende più fragili. Siamo ancora tutti dentro questi labirinti

Ed è la sensazione che mi ha dato il déconfinement : non un’interruzione, non un cambiamento, ma il trasbordo del sonnambulismo domestico nelle strade, nei negozi, a cielo aperto. Lunedì 11 ho avuto l’impressione di vedere la città invasa di sonnambuli, alla ricerca disperata di uscire dai propri sogni, di ritrovare un’esperienza diurna diventata impossibile.

Personalmente, la riapertura della città ha coinciso con una fortissima sensazione di essere diventata orfano: la città che era il mio domicilio -i teatri, i musei, le università, i cinema– sono chiusi per ora. E mi sono chiesto seriamente se questa città, quella che ci ha strappato negli ultimi decenni dall’inferno piccolo-borghese di case e forme di convivenza domestica ancora costruite secondo modelli ottocenteschi, riaprirà, risorgerà dal lockdown. Ho come l’impressione che questo spazio sia finito per sempre e che quello che ci aspetta sia ricostruirlo, in altre forme, e liberarci il prima possibile dalle case.

Per secoli la città era stata assieme un alibi e una fantasmagoria. È stata un alibi per le esistenze domestiche, che si erano arrestate in forme, in costumi, in attitudini spesso premoderni. La città ci permetteva di vivere diversamente: di condividere corpi, idee, momenti che non potevano essere partecipati altrimenti. È stata lo spazio in cui il sogno diventava realtà condivisa e base per la costruzione comune di un futuro possibile.

Mi sono chiesto in questi giorni spesso se le città potranno riemergere nello stesso modo o se invece dovremo immaginare altri modi per uscire di casa, per liberarci delle nostre case – o per ripensarle.

Ecco, l’impressione fortissima ora nel déconfinement è proprio quello di una sensazione ancora più forte di non riuscire più a uscire di casa, come se a causa della quarantena fosse diventato casa, ma che d’altra parte questa casa non è più uno spazio dove io posso vivere davvero.

Se mi sono dilungato in queste impressioni è perché credo che il problema a cui tu accenni – la strana schizofrenia tra i discorsi che da decenni parlano di allargare lo spazio urbano al non-umano e la reazione che abbiamo avuto di fronte alla pandemia è legata alla nostra ossessione per la casa, a uno spazio sicuro, ben ordinato, definito da un’appartenenza certo a qualcuno che ha il diritto di non essere invaso.

L’ossessione per la casa non riguarda solo la nostra vita: l’abbiamo proiettata su tutti gli abitanti del pianeta. Quella che chiamiamo ecologia è, a partire dal suo stesso nome, una teoria della casa universale. O, se vuoi, una strana forma di teoria della quarantena planetaria, che impone a tutti una casa, e il diritto dovere di restare a casa, di rispettare la casa degli altri, di rispettare la proprietà privata altrui. L’ecologia si rappresenta il mondo come un immenso Schrebegarten in cui a ogni specie è assegnato un posto, un piccolo giardinetto, un ecosistema che nessuno ha il diritto di invadere ma che gli abitanti non hanno il diritto di evadere.  In fondo anche le eziologie più radicali della pandemia continuano a nutrirsi di questo strano immaginario. Si è detto che Sars-Cov-2 ha invaso le nostre città perché gli umani avevano danneggiato la sua ‘casa’, il suo habitat naturale. Come se non fosse normale, giusto, ovvio, che anche i virus escano di casa, che si spostino, che migrino, come noi migriamo, ci spostiamo, pretendiamo di uscire fuori di casa. Anche quando parliamo delle foreste come degli spazi in cui abitano naturalmente le specie diverse da noi, e ne parliamo come di spazi non costruiti, non strappati all’inabilitabilità del pianeta commettiamo questo strano errore. E in questo caso non ci accorgiamo di quanto sia violento il nostro gesto. La parola foresta viene dal latino foris, ‘fuori da’. Ogni volta che pronunciamo la parola foresta stiamo pensando a un campo profughi per non-umano. Ogni volta che parliamo di rispetto delle foreste parliamo di rispetto per campi in cui ammassiamo il non-umano purché ci lasci liberi in città. Rispettare la casa dei non-umani, rispettare gli ecosistemi, è un modo per ‘aiutarli a casa loro’, un modo per santificare sempre e ancora la nostra casa, la nostra città.

È soprattutto perché continuiamo a pensare che alberi, virus, leoni, pangolini e aquile abbiano una propria casa altrove, fuori città, che possiamo continuare a immaginare che le nostre città -l’insieme delle nostre case – debbano essere protette dagli estranei, e soprattutto dagli estranei non-umani. In fondo dimentichiamo che Parigi, Milano, Pechino, New York, Buenos Aires o Melbourne non sono luoghi naturalmente deputati ad accogliere gli uomini. Sono spazi che abbiamo strappato ad altri viventi che vivevano li prima di noi. Ogni città riposa su un genocidio non-umano che ci sembra necessario per rendere possibile la nostra sopravvivenza. Finché persisterà questa strana idea di uno spazio che sia naturalmente deputato ad accogliere questa o quella specie (ed è l’idea di base di quello che chiamiamo ecosistema) non potremmo mai liberarci della schizofrenia di cui tu parli, né in città né nella foresta.

Ovviamente non ho soluzioni a questa schizofrenia. Ma credo che se la città deve essere ripensata, deve esserlo anche la ‘natura’, e non sono sicuro che l’ecologia sia il migliore modo per farlo. Dovremmo forse cominciare ad accettare che anche le altre specie trasformano il mondo e il paesaggio e ne fanno qualcosa che non ha nulla di naturale. Dovremmo cominciare a riconoscere alle altre specie tutte le qualità che riconosciamo a noi stessi. E a partire da qui, pensare che la coabitazione su un solo pianeta non è questione di rispetto di regole naturali, ma di negoziazioni, di accordi reciproci, di patti che debbono costantemente essere ridisegnati in funzione delle necessità degli uni e degli altri.

 

Mathieu Potte-Bonneville

Caro Emanuele, la tristezza di cui parli (uscire di casa e non trovare altro fuori se non una città spezzata o rovinata), questa tristezza ha attraversato anche Parigi; indubbiamente avrà anche percorso molte altre parti del mondo, seminando nell’anima dei suoi abitanti un fardello, un’ombra passeggera che in alcuni indugia, un’onda fredda la cui causa in un primo momento sembrava resistere a qualsiasi identificazione: perché in fondo non abbiamo avuto il diritto di fare proprio quello che volevamo, di andarcene? E qui, invece di rallegrarsi, molti hanno visto i loro impulsi ritrarsi come un bocciolo schiuso troppo presto, esposto al gelo, e appassire; non andava, probabilmente sarebbe passata, ma se una festa c’era, si svolgeva altrove, e noi non c’eravamo.

A questa tristezza non sono stati estranei né il sonnambulismo che evochi, la grande vertigine di essere rimasti a casa per molto tempo (per chi non era impegnato a stare all’aperto, però, non dobbiamo mai smettere di ricordarcelo), né il modo in cui lo spazio urbano appariva ridimensionato, ridotto ai suoi aspetti più inospitali cosicché non si era più a casa né dentro né fuori – un’esperienza da cui tu trai una lezione di grande effetto. Non sono stati estranei neppure, molto banalmente (ma la tristezza è banale), la vicinanza del lutto e la crisi che verrà, e che dovrà essere affrontata. Tuttavia, a questo aggiungerei una componente ulteriore. Nell’intreccio politico tra ciò che è comune e ciò che non lo è, il confinamento ha segnato un momento singolare: è stato imposto a tutti, ma molti ne sono stati esclusi; ha imposto un vincolo uguale, denunciando però a maggior ragione la disuguaglianza delle condizioni in cui tale vincolo è stato imposto, in termini di metri quadrati per persona, di obbligo di continuare a lavorare o di utilizzare i trasporti pubblici, di modo di guadagnarsi da vivere, di distribuzione dei compiti all’interno della casa, di numero di controlli di polizia effettuati all’uscita, di grado di violenza di tali controlli, eccetera. A questa dialettica di disuguale uguaglianza, rispondeva uno strano modo degli spazi pubblici e privati di scambiarsi le proprie determinazioni; perché, divenuta il luogo stesso attorno al quale ruotava l’imperativo politico, la casa si rigirava come un guanto, lasciando trasparire il suo interno ora lussuoso (non sono mancati gli scrittori francesi, intenti a scrivere «diari di confinamento» nelle loro seconde case, che ne hanno pagato il prezzo esponendosi alla beffa), ora malsano e invivibile.

Per riprendere un paragone di Patrick Boucheron, il confinamento è stato un terremoto: come un terremoto, non si è accontentato di farci ripiegare nel chiuso delle nostre case, ma le ha aperte a tutti; come un terremoto, non si è accontentato di colpire tutti indifferentemente, ma ha rivelato che le fondamenta delle nostre rispettive esistenze sono ben lungi dall’essere altrettanto solide. È questo il fragile interstizio attraverso cui si poteva porre una domanda politica, e che il deconfinamento è sembrato chiudere: improvvisamente, l’11 maggio in Francia, era tornato il tempo in cui tutti sentivano, tristemente, la loro particolare deviazione da una norma che, non essendo più la norma di tutti, non era più la norma di nessuno, la disoccupazione, di modo che la povertà, i dubbi tornavano ad essere cose private che andavano affrontate da soli. Paradossalmente, quindi, l’autorizzazione ad uscire è sembrata per un momento equivalente a un invito a disperdersi, a chiudersi alle spalle la porta della propria esistenza privata. E solo allora la primavera è arrivata davvero – con la grande e forte rabbia che ha visto, da diverse settimane a questa parte, tante persone protestare negli Stati Uniti e nel mondo contro la discriminazione, la violenza della polizia, l’invisibilità dei non bianchi. A mio avviso, non è un caso che il diritto di dimostrare sia stato riconquistato su questo punto, e che sia stato salvato dalla strumentalizzazione delle norme sanitarie. L’insopportabile agonia di Georges Floyd, dopo tante altre, non sarebbe stata recepita così se non avesse incontrato il desiderio di giustizia che l’epidemia ha lungamente acuito, levigando una norma comune contro la ruvida superficie delle disuguaglianze sociali, nei mesi in cui sentivamo ripetere, con lo stesso respiro, che la vita aveva un valore supremo, a patto di adattarsi al fatto che, palesemente, le vite avevano valori variabili. Negli Stati Uniti, gli afroamericani rappresentano il 40% dei decessi dovuti al COVID-19 quando rappresentano solo il 13% della popolazione totale; anche in Francia, la città di Saint-Denis, che conta un gran numero di lavoratori poveri e di immigrati, ha il più alto numero di decessi. A questo proposito, ricordare che «le vite nere contano» costituisce una risposta esatta alla tesi secondo cui, in difesa della vita, non si dovrebbe essere costretti a contare.

Forse è giunto il momento, come tu stesso hai sottolineato, di sostituire l’illusione di un mondo in cui tutti sono a casa loro con una generale rinegoziazione dei nostri luoghi e delle nostre relazioni - non solo tra gli esseri umani, ma anche oltre. La buona notizia è che alcune persone, già confinate nell’inesistenza, si sono appena riprese le strade.

 

 

Emanuele Coccia 

Caro Mathieu, è vero: la quarantena forzata -cioè gli arresti domiciliari nello spazio domestico– sono stati soprattutto l’esperienza dell’ingiustizia che la città normalmente assieme corregge, cancella o prova a far dimenticare. È normale che sia così: la casa non può che essere lo spazio di ingiustizia sociale, perché è letteralmente quanto si oppone alla mediazione della città. È normale che sia così: non c’è giustizia senza spazio pubblico, senza un luogo che ci sottragga in qualche modo all’ordine della genealogia, della proprietà privata, dell’eredità, dell’identità acquisita.

Il problema però, mi sembra, non era nelle condizioni del vincolo, ma nel suo oggetto. Non ci può essere uguaglianza, parità, giustizia quando tutti sono ridotti alla propria casa. La parità, l’uguaglianza, la giustizia sono possibili sono in città. E la sospensione della città, la sospensione dello spazio pubblico non può che far emergere un’ingiustizia originaria, renderla più evidente, palpabile, evidente, perché non è più mascherata dal supplemento di vita che lo spazio urbano ci dà quotidianamente. Quanto abbiamo imparato è che la città non era lo spazio della giustizia, ma lo spazio in cui avevamo imparato a dimenticare, tollerare, provare a non vedere l’ingiustizia.

Quello che la quarantena ha reso evidente è che le città, così come le abbiamo conosciute, costruite, immaginate, non sono più capaci di produrre questa giustizia. Non bisogna solo riconquistare la strada. Bisogna ricostruire, ripensare lo spazio che separa e congiunge le case. Non bisogna solo buttar giù le statue. Bisogna buttar giù tutto quello che continua a rendere la città un semplice agglomerato di case, un semplice aggregato di ingiustizie locali e private che provano ad equilibrarsi.

Ma soprattutto, bisogna provare a immaginare uno spazio di coesistenza e di coabitazione che sia al di là dell’opposizione o della tensione tra casa e città. Per farlo bisogna liberarsi da più di un equivoco. È necessario innanzitutto smettere di pensare che la città e la casa -e più in generale la costruzione di uno spazio comune– siano un problema architettonico: un problema di geometria degli involucri murari in cui la nostra vita privata e collettiva ha luogo. Città e casa non sono forme dello spazio, sono forme della nostra vita morale. Città e casa sono concetti e realtà morali: sono le forme a cui deleghiamo il compito di produrre attivamente la nostra felicità.

La riflessione morale che deve permetterci a ripensare i limiti e le forme della vita felice deve anch’essa liberarsi del pregiudizio che fa della felicità qualcosa di naturale, spontaneo, non artificiale. Non siamo naturalmente o spontaneamente felici. La felicità, individuale e collettiva è sempre un artefatto: qualcosa che presuppone una trasformazione del mondo, e una negoziazione affinché questa trasformazione sia possibile. La morale non è la dottrina dei buoni sentimenti, delle attitudini, delle emozioni: è una teoria della manipolazione cosciente e consapevole del mondo in tutte le sue parti, psichiche e materiali.

Dovremmo anche prendere congedo definitivo da tutto quello che abbiamo rubricato e raccolto sotto il titolo ‘politica’ e soprattutto, tutto quello che ci riconduce all’eredità greca.

È inutile buttar giù le statue degli schiavisti americani, se continuiamo a prendere a modello una società, quella greca, che ha fatto della politica la vita che resta una volta che una massa di schiavi ha liberato una élite delle necessità della vita pensata come ‘materiale’. La polis greca era una comunità chiaramente, esplicitamente e fieramente schiavista e sessista. Liberiamoci di questa eredità. Smettiamo di chiamare ‘politica’ lo sforzo di pensare e costruire la vita comune. Smettiamo di pensare che per vivere assieme bisogna essere maschi e proprietari di vite altrui. Altrimenti tutto quello che succede ora negli Stati Uniti non servirà a nulla.

Non basta riconquistare la strada. Non basta nemmeno prendersela con gli attuali governanti. Sono colpevoli, ma a essere colpevole è soprattutto la nostra mancanza di immaginazione nel pensare l’intreccio della nostra felicità collettiva. Sforziamoci ora di dare un nuovo nome e una nuova forma alla felicità che vogliamo.


—-

Mathieu Potte-Bonneville è filosofo e docente. Già presidente del Collège international de philosophie, è uno specialista dell’opera di Michel Foucault, di cui cerca di mettere in relazione i concetti con la contemporaneità. Impegnato a moltiplicare gli spazi di confronto tra ricerca, impegno e creazione, ha creato la Notte delle Idee in collaborazione con l’Institut Français, e attualmente dirige il settore Culture et Creation del Centre Pompidou di Parigi. Ultime opere pubblicate: Recommencer (Verdier, 2018), Voir Venir - Ecrire l’hospitalité, con la scrittrice Marie Cosnay (Stock, 2019). L’archivio aperto dei suoi articoli e dei suoi discorsi è consultabile su mathieupottebonneville.fr.

Emanuele Coccia è docente presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi dopo aver insegnato all’Università di Friburgo in Breisgau in Germania. È stato visiting professor presso le Università di Tokyo, Buenos Aires, Düsseldorf, Weimar e Monaco di Baviera e borsista presso l’Accademia Italiana di Studi Avanzati della Columbia University di New York. Specialista di filosofia medievale, ha dedicato una prima opera all’averroismo latino e ha pubblicato, con Giorgio Agamben, un’antologia sugli angeli nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam. La sua ricerca si orienta poi verso la teoria dell’immagine e la natura degli esseri viventi. Tra le sue pubblicazioni, tradotte in diverse lingue, La vie sensible (Payot et Rivages 2010), Le Bien dans les choses (Payot et Rivages 2013) La vie des plantes (Payot et Rivages 2016) e Métamorphoses (Payot et Rivages 2020) È stato consulente scientifico per la mostra «Nous les arbres» alla Fondation Cartier pour l’art contemporain nel 2019.




 

 

Mathieu Potte-Bonneville

Cher Emanuele, cette lettre te parvient plus tard que prévu – tout me prend davantage de temps ces jours-ci ; mes résolutions s’étirent, se défont, se reprennent à mesure que l’agenda se trouble dans la répétition de journées identiques, et que toute tentative pour distinguer fermement un avant, un pendant, un après vient s’échouer sur la réalité d’une crise dont le temps ne ressemble pas à celui de nos horloges. De là, une série d’illusions ou d’erreurs de perspective : avec une constance qui serait burlesque si nous n’étions pas en deuil, nous ne cessons de rechercher des pics tout en nous efforçant d’aplatir une courbe, nous raisonnons par saisons lorsque rien n’indique que l’automne sera, du point de vue sanitaire, substantiellement différent de l’été, nous convoquons le ban et l’arrière-ban de nos souvenirs scolaires pour imaginer cartables au dos d’improbables “rentrées” quand d’autres n’ont jamais débrayé, et n’ont pas cessé de circuler dehors. A ce sujet d’ailleurs, à mesure que la conscience commune du temps social s’effilochait l’espace de son côté durcissait la frontière, fabriquant chez la part de l’humanité commise à rester chez soi, et quand bien même la promiscuité y serait insupportable, une angoisse de ressortir dont l’intensité sourde passe de très loin la seule crainte de la maladie (on ne déchaîne pas impunément les pulsions asociales, la tentation de se soustraire une fois pour toutes au contact et au regard). Bref : je suis en retard.

Ce retard tient aussi à la difficulté qu’il y a, ces jours-ci, à penser et écrire. La difficulté ne tient pas simplement aux raisons habituelles, et d’ailleurs légitimes (vanité de penser quand la mort rôde, luxe d’écrire quand le crash économique menace). C’est aussi que chaque pensée qui se présente à moi de façon un peu trop facile est suspecte à mes yeux de reconduire un cadre théorique antérieur à la crise elle-même, et je crains de ne lire alors celle-ci que comme l’illustration ou la validation de thèses antécédentes, sur le mode pompeux ou fanfaron du “je vous l’avais bien dit”. En même temps, l’autre branche de l’alternative – l’attitude qui consiste à broncher devant l’obstacle, à se contenter de maugréer avec fatigue devant la somme de ce qui aujourd’hui se publie en matière de commentaires ou d’interprétations – cette position de retrait-là n’est pas satisfaisante non plus : elle sent un peu trop l’aristocratisme frustré, travers typique qui fait ressembler les philosophes à l’alpiniste déçu de constater, parvenu au sommet, qu’un groupe de touristes l’y a précédé, le privant de la contemplation solitaire du paysage. Se méfier à la fois de la viralité du déjà-dit, et de ses propres réflexes immunitaires, c’est fatigant, à la force. Cela oblige surtout – c’est en tout cas la règle que je me suis donnée, la contorsion à laquelle j’ai tenté de me plier, pour me sortir de l’impasse – à tenter d’identifier ce qui, dans la crise que nous traversons, déconcerte ou déstabilise ce que nous croyions devoir penser, ébranle les cadres de l’interrogation que la communauté philosophique menait, voici quelques mois encore, à propos du réel. À faire ainsi la chasse à ce qui, dans nos manières de réfléchir s’est un peu lézardé, j’ai l’espoir que les contours du réel se laisseraient reconnaître en creux, par les effets d’interruption qu’ils impriment à nos gestes et à nos discours. Etre fidèle, en un sens, au tâtonnement d’Artaud, dans sa correspondance avec Jacques Rivière : “Il y a un quelque chose qui détruit ma pensée”.

 

Sur la carte de ces ébranlements, il y a une inquiétude qui te parlera peut-être. En un sens, la survenue de cette épidémie, les drames qu’elle occasionne et la réaction mondiale qui lui répond nous saisissent comme un drame au beau milieu des noces. Voici quelques années déjà que, toutes disciplines confondues – de l’anthropologie à l’histoire, de la philosophie à la littérature – un mouvement de grande ampleur, comme la pensée contemporaine n’en avait pas connue depuis les années 1970, s’appliquait collectivement à abattre les piquets et l’enclos séparant notre humanité du reste des êtres, à envisager les modalités de notre coexistence et la multiplicité de nos liaisons avec le monde sur un plan de réalité dont aucune différence ni aucune hiérarchie ne serait plus marquée au préalable. Rends-toi compte : nous avions mis des souris et des cyborgs dans l’histoire des femmes (Donna Haraway), des chevaux de guerre dans celle du conflit de 1914-1918 (Eric Baratay), des morts dans le quotidien des vivants (Vinciane Desprets), des ignames dans les familles des indiens Achuar (Philippe Descola), des choses au Parlement (Bruno Latour), des plantes à même l’Etre, leur synthèse chlorophylienne intercédant pour nous, dans tes propres travaux. En septembre dernier, parut ainsi en France un extraordinaire récit de l’anthropologue Nasstasja Martin où celle-ci racontait comment, attaquée par un ours en Sibérie et le visage pris dans ses mâchoires, elle avait vu sa vie de survivante marquée par l’impératif de devoir, dans son propre récit et sa conscience d’elle-même, accueillir une part d’ours en elle comme sans doute elle avait laissé une part d’elle en lui. C’est le texte le plus bouleversant que j’aie lu depuis longtemps : et aujourd’hui je ne sais plus quoi faire de cette émotion.

 

Car mon trouble intervient justement ici. De cet effort intellectuel pour modifier notre compréhension des rapports entre humains et non-humains, l’épidémie de SARSCOV-2 apporte une confirmation immense et magistrale : il sera difficile désormais de contester qu’un virus soit un acteur social, ou de dénier aux chauves-souris le droit de s’inviter à la table des protagonistes de l’histoire du monde. Mais la confirmation est, en un sens, si éclatante qu’elle laisse désemparée, désarçonnée la pensée elle-même. Car dans le même temps, la réaction des sociétés humaines – et il n’est pas question pour moi de le leur reprocher ! – ne consiste évidemment pas à accueillir le virus comme un frère, mais à se réorganiser entièrement pour faire droit à l’impératif de protection, au point que l’intensité de cette réaction elle-même laissera des traces, des traces auto-immunes, des séquelles de tous ordres (économique, sécuritaire, géopolitique, etc). Et de cette réaction, de ces efforts collectifs pour établir une frontière radicale, pour ériger un mur, je ne sais pas ce que nos pensées accueillantes à la multiplicité des non-humains peuvent exactement faire, ni si elles permettent de l’envisager différemment. Pour le dire autrement, il me semble qu’une faille s’est ouverte entre, disons, l’affirmation spéculative d’une communauté de destin à toutes les choses, et l’aménagement pratique de leur séparation. Cette faille est, pour moi, un problème philosophique ; car une philosophie peut-elle se contenter de rassembler ce que la pratique sépare, sans verser dans ce que le marxisme nous a appris à reconnaître comme une position idéaliste ? Mais cette faille constitue également un problème politique. Après tout, le mouvement intellectuel dont je parlais, tout cet effort pour réévaluer notre position dans le monde, visait aussi à poser les bases d’une pratique et d’une politique différentes, dans l’ordre écologique et environnemental : de ce point de vue, je ne trouve pas rassurante la manière dont en France en tout cas, les mouvements écologistes ont multiplié les remarques sur “le monde d’après”, mais sont restés presque entièrement silencieux dans le débat public sur les modalités de gestion de la crise elle-même. Beaucoup voient dans cette crise l’opportunité de redémarrer différemment, d’adopter des façons de faire, de produire, etc., à la hauteur du défi environnemental. Peut-être : mais il n’empêche qu’en elle-même, la stratégie de confinement, cette réaffirmation à l’échelle industrielle de la barrière séparant le socius de tout ce qui l’environne, oppose une sorte de démenti cinglant à toute tentative pour agir autrement. Dans sa préface aux oeuvres complètes de Spinoza, Roger Caillois se demande “si le Dieu de l’Éthique a été capable de démontrer l’existence de l’homme”. J’arrive à un point de butée du même genre : si l’épidémie donne raison au souci pour le non-humain, comment éviter de voir cette raison se retirer de l’horizon qui est le nôtre, nous renvoyant les mains vides à nos solitudes phobiques ? Mais arrivé ici je me tais – je me demande si et comment, toi, tu te confrontes à ces questions.


 

Emanuele Coccia

Cher Mathieu, il se trouve que c’est moi qui suis en retard aujourd’hui pour vous répondre, et je m’en excuse vivement. J’ai vécu le mois dernier dans un état de somnambulisme éveillé, comme si cela avait été le temps d’une journée, ou d’un rêve, sans interruption. Après tout, la maison est par définition l’espace du rêve, l’endroit où l’expérience quotidienne se défait dans l’obscurité, elle se mélange aux désirs les plus inavoués et redessine l’expérience en quelque chose qui peut être décliné à l’optatif ou au conditionnel, mais jamais au passé composé. C’est comme si, une fois enfermé dans la maison, il était impossible de vivre une expérience autre qu’un rêve. Et la quarantaine, l’injonction de rester à la maison, de se dissocier de l’espace public, urbain, de la ville, était involontairement l’injonction de plonger chacun dans son rêve : rendre impossible une expérience commune et se perdre parmi les écrans de ses propres projections. Elle n’a rien à voir avec l’adoption de moyens de télé-réunion. Vivre enfoui dans ses rêves (ou cauchemars) est ce qui nous rend le plus fragiles.Nous sommes tous encore à l’intérieur de ces labyrinthes.

Et c’est le sentiment qui m’a donné le déconfinement : pas une interruption, pas un changement, mais le débordement du somnambulisme domestique dans les rues, dans les magasins, en plein air. Le lundi 11, j’ai eu l’impression de voir la ville envahie par des somnambules, désespérés de sortir de leurs rêves, pour retrouver une expérience diurne devenue impossible.

Personnellement, la réouverture de la ville a coïncidé avec un sentiment très fort d’être devenu orphelin : la ville qui était ma maison -les théâtres, les musées, les universités, les cinémas– sont fermés pour le moment. Et je me suis sérieusement demandé si cette ville, celle qui nous a arrachés ces dernières décennies au petit enfer bourgeois des maisons et des formes de cohabitation domestique encore construites selon les modèles du XIXe siècle, va rouvrir, va sortir de l’enfermement. J’ai l’impression que cet espace est fini pour toujours et que ce qui nous attend, c’est de le reconstruire, sous d’autres formes, et de nous débarrasser des maisons le plus vite possible.

Pendant des siècles, la ville a été à la fois un alibi et une fantasmagorie. C’était un alibi pour les existences domestiques, qui s’étaient arrêtées dans les formes, dans les coutumes, dans les attitudes souvent prémodernes. La ville nous a permis de vivre autrement : de partager des corps, des idées, des moments qui ne pourraient être partagés différemment. C’était l’espace où les rêves devenaient une réalité partagée et la base de la construction commune d’un avenir possible.

Ces jours-ci, je me suis souvent demandé si les villes pouvaient refaire surface de la même manière ou si, au contraire, nous devions imaginer d’autres façons de quitter notre foyer, de nous débarrasser de nos maisons – ou de les repenser.

Eh bien, la très forte impression qui se dégage maintenant du déconfinement est précisément celle d’un sentiment encore plus fort de ne plus pouvoir quitter la maison, comme si, à cause de la quarantaine, elle était devenue ma maison, mais que d’autre part cette maison n’est plus un espace où je peux vraiment vivre.

Si je me suis attardé sur ces impressions, c’est parce que je crois que le problème que tu évoques – l’étrange schizophrénie parmi les discours qui, depuis des décennies, parlent d’élargir l’espace urbain au non-humain et la réaction que nous avons eue face à la pandémie – est lié à notre obsession du foyer, d’un espace sûr, bien ordonné, défini par une certaine appartenance à quelqu’un qui a le droit de ne pas être envahi.

L’obsession du foyer ne concerne pas seulement notre vie : nous l’avons projetée sur tous les habitants de la planète. Ce que nous appelons l’écologie est, de par son nom même, une théorie de la maison universelle. Ou, si tu préfères, une forme étrange de théorie de la quarantaine planétaire, qui impose à chacun un foyer, et le devoir de rester chez soi, de respecter le foyer des autres, de respecter la propriété privée des autres. L’écologie représente le monde comme un immense Schrebegarten dans lequel chaque espèce se voit attribuer une place, un petit jardin, un écosystème que personne n’a le droit d’envahir mais que les habitants n’ont pas le droit de fuir.  Après tout, même les étiologies les plus radicales de la pandémie continuent à se nourrir de cette drôle d’imagination. Il a été dit que Sars-Cov-2 a envahi nos villes parce que les humains avaient endommagé son «chez-soi», son habitat naturel. Comme s’il n’était pas normal, juste, évident, que les virus quittent aussi la maison, qu’ils se déplacent, qu’ils migrent, comme nous migrons, nous nous déplaçons, nous faisons semblant de sortir de la maison. Même lorsque nous parlons des forêts comme d’espaces dans lesquels vivent naturellement des espèces différentes de nous, et que nous en parlons comme d’espaces non construits, non arrachés à l’incapacité de la planète, nous faisons cette étrange erreur. Et dans ce cas, nous ne réalisons pas à quel point notre geste est violent. Le mot forêt vient du latin foris, «hors de». Chaque fois que nous prononçons le mot forêt, nous pensons à un camp de réfugiés pour les non-humains. Chaque fois que nous parlons de respect pour les forêts, nous parlons de respect pour les camps dans lesquels nous massons le non-humain pour peu que celui-ci nous laisse libre dans la ville. Respecter la maison des non-humains, respecter les écosystèmes, c’est une façon de «les aider chez eux», une façon de sanctifier toujours et encore notre maison, notre ville.

C’est surtout parce que nous continuons à penser que les arbres, les virus, les lions, les pangolins et les aigles ont leur propre maison ailleurs, en dehors de la ville, que nous pouvons continuer à imaginer que nos villes – toutes nos maisons – doivent être protégées des étrangers, et surtout des étrangers non humains. Après tout, on oublie que Paris, Milan, Pékin, New York, Buenos Aires ou Melbourne ne sont pas des lieux qui accueillent naturellement les gens. Ce sont des espaces que nous avons arrachés à d’autres personnes vivantes qui y ont vécu avant nous. Chaque ville repose sur un génocide non humain qui nous semble nécessaire pour rendre notre survie possible.Tant que persistera cette étrange idée d’un espace naturellement destiné à accueillir telle ou telle espèce (et c’est l’idée de base de ce que nous appelons l’écosystème), nous ne pourrons jamais nous débarrasser de la schizophrénie dont vous parlez, ni en ville ni en forêt.

Je n’ai évidemment aucune solution à cette schizophrénie. Mais je crois que si la ville doit être repensée, la «nature» doit l’être aussi, et je ne suis pas sûr que l’écologie soit la meilleure façon de le faire. Peut-être devrions-nous commencer à accepter que d’autres espèces transforment également le monde et le paysage et en font quelque chose qui n’a rien de naturel. Nous devrions commencer à reconnaître aux autres espèces toutes les qualités que nous nous reconnaissons à nous-mêmes. Et à partir de là, penser que la cohabitation sur une seule planète n’est pas une question de respect des règles naturelles, mais de négociations, d’accords mutuels, de pactes qu’il faut sans cesse redéfinir en fonction des besoins des uns et des autres.


 

Mathieu Potte-Bonneville

Cher Emanuele, la tristesse dont tu parles (sortir de chez soi et ne retrouver au-dehors qu’une ville brisée ou abîmée), cette tristesse est passée également par Paris ; sans doute a-t-elle traversé bien d’autres parties du monde, semant dans l’âme de leurs habitants un accablement, une ombre passagère qui chez certains s’attarde, une vague froide dont la cause d’abord sembla résister à toute identification : car n’avions-nous pas enfin le droit de faire ce que précisément nous désirions, sortir ? Et voici qu’au lieu de se réjouir beaucoup voyaient leurs élans se contracter comme un bourgeon trop tôt éclos s’expose au coup de gel, et se flétrit ; ça n’allait pas, ça passerait sans doute mais si fête il y avait, elle se déroulait ailleurs, et l’on n’en était pas.

A cette tristesse, ne furent étrangers ni le somnambulisme que tu évoques, le grand vertige d’être resté longtemps au foyer (pour ceux toutefois, il ne faut jamais cesser de le rappeler, qui n’étaient pas commis à rester dehors), ni la façon dont l’espace urbain apparut écaillé, ramené à ses aspects les plus inhospitaliers de sorte que l’on n’était plus chez soi ni dedans, ni dehors – expérience dont tu tires une impressionnante leçon. N’y furent pas étrangers non plus, tout bêtement (mais le malheur est bête) les deuils tout proches et la crise à venir, qu’il faudra affronter. J’y ajouterais pourtant une composante supplémentaire. Dans le nouage politique de ce qui est commun et de ce qui ne l’est pas, le confinement a marqué un moment singulier : il fut imposé à tous, mais beaucoup s’en trouvèrent exclus ; il imposa une contrainte égale, mais accusa d’autant plus fortement l’inégalité des conditions auxquelles cette contrainte s’imposait, que celle-ci se compte en mètres carrés par personne, en obligation de poursuivre le travail ou d’emprunter les transports, en type de manière de gagner sa vie, en distribution genrée des tâches au sein du foyer, en nombre de contrôles de police subis au sortir de chez soi, en degré de violence de ces contrôles, etc. A cette dialectique de l’égalité inégale, répondit une étrange manière pour les espaces privés et publics d’échanger leurs déterminations ; car d’être devenu le lieu même autour duquel tournait l’impératif politique, le chez-soi se retournait comme un gant, laissait voir au-dehors ses atours luxueux (quelques écrivaines françaises, lancées dans l’écriture de “journaux de confinement” depuis leurs résidences secondaires, en firent les frais et s’exposèrent aux moqueries) ou insalubres et invivables. Pour emprunter une comparaison à Patrick Boucheron, le confinement fut un séisme : comme un séisme, il ne se contenta pas de nous replier sur nos intérieurs mais ouvrit ceux-ci au regard de tous ; comme un séisme, il ne se contenta pas de s’appliquer indifféremment à tous mais révéla que les fondations de nos existences respectives sont loin d’être également solides. C’est ce fragile interstice par où une question politique pouvait être posée, que le déconfinement nous parut refermer : d’un coup, le 11 mai en France, le temps était revenu pour chacun d’éprouver, malheureux, son écart particulier à une norme qui, pour n’être plus celle de tout le monde, n’était plus celle de personne, chômage, pauvreté, doutes redevenant choses privées dont on devrait s’arranger seul.

Paradoxalement donc, l’autorisation de ressortir sembla équivaloir un instant à une invitation à se disperser, à refermer derrière soi la porte de son existence privée. Et c’est ensuite, seulement, que le véritable printemps est venu – avec la grande et forte colère qui voit, depuis plusieurs semaines, tant de gens protester aux Etats-Unis et partout dans le monde contre les discriminations, les violences policières, l’invisibilité des non-blancs. De mon point de vue, que le droit de manifester soit ressaisi à ce propos, et arraché à l’instrumentalisation des normes sanitaires, n’est pas une coïncidence. L’insoutenable agonie de Georges Floyd, après tant d’autres, n’aurait pas été ainsi reçue si elle n’avait pas rencontré le désir de justice que l’épidémie a longuement aiguisé, polissant une norme commune sur la surface rugueuse des inégalités sociales, au fil des mois où d’un même souffle on répéta que la vie avait une valeur suprême en s’arrangeant du fait que, visiblement, les vies avaient des valeurs variables. Aux Etats-Unis, les afro-américains représentent 40% des décès dûes au COVID-19 quand ils ne constituent que 13% de la population générale ; en France, la ville de Saint-Denis qui concentre un grand nombre de travailleurs pauvres et de populations issues de l’immigration compte aussi le plus grand nombre de morts. A cet égard, rappeler que “les vies noires comptent” répond exactement à l’énoncé selon lequel, pour défendre la vie, on ne devrait pas être obligé de compter.

Peut-être est-il temps, comme tu l’indiques, de substituer à l’illusion d’un monde où l’on serait chacun chez soi, la renégociation générale de nos places et des nos relations – non seulement entre humains, mais aussi bien au-delà. Bonne nouvelle : déjà certains, confinés à l’inexistence, viennent de reconquérir la rue.

 

 

Emanuele Coccia 

Cher Mathieu, c’est vrai : la quarantaine forcée - c’est-à-dire la détention à domicile dans l’espace domestique - a été avant tout l’expérience de l’injustice que d’habitude la ville corrige, efface ou tente de faire oublier en même temps. Il est normal que ce soit le cas : le foyer ne peut être que l’espace de l’injustice sociale, car c’est littéralement ce qui s’oppose à la médiation de la ville. Il est normal qu’il en soit ainsi : il n’y a pas de justice sans espace public, sans un lieu qui nous éloigne d’une certaine manière de l’ordre de la généalogie, de la propriété privée, de l’héritage, de l’identité acquise.

Le problème, cependant, me semble-t-il, n’était pas dans l’état du lien, mais dans son objet. Il ne peut y avoir d’égalité, de parité, de justice lorsque chacun est réduit à sa propre maison. L’égalité, la parité, la justice ne sont possibles que dans la ville. Et la suspension de la ville, la suspension de l’espace public ne peut que faire ressortir une injustice originale, la rendre plus évidente, palpable, manifeste, parce qu’elle n’est plus masquée par le surcroît de vie que l’espace urbain nous apporte chaque jour. Ce que nous avons appris, c’est que la ville n’était pas l’espace de la justice, mais l’espace dans lequel nous avions appris à oublier, à tolérer, à essayer de ne pas voir l’injustice.

Ce que la quarantaine a mis en évidence, c’est que les villes, telles que nous les avons connues, construites, imaginées, ne sont plus capables de produire cette justice. Nous ne devons pas seulement regagner la rue. Nous devons reconstruire, repenser l’espace qui sépare et relie les maisons. Nous ne devons pas seulement démolir les statues. Nous devons démolir tout ce qui continue à faire de la ville une simple agglomération de maisons, un simple agrégat d’injustices locales et privées qui tentent de s’équilibrer.

Mais surtout, nous devons essayer d’imaginer un espace de coexistence et de cohabitation qui dépasse l’opposition ou la tension entre la maison et la ville. Pour ce faire, nous devons nous libérer de plus d’un malentendu. Tout d’abord, il faut cesser de penser que la ville et la maison - et plus généralement la construction d’un espace commun - sont un problème architectural : un problème de géométrie des enveloppes maçonnées dans lesquelles se déroule notre vie privée et collective. La ville et la maison ne sont pas des formes d’espace, ce sont des formes de notre vie morale. La ville et la maison, ce sont des concepts et des réalités morales : ce sont les formes auxquelles nous déléguons la tâche de produire activement notre bonheur.

La réflexion morale qui doit nous permettre de repenser les limites et les formes de la vie heureuse doit également se débarrasser des préjugés qui font du bonheur quelque chose de naturel, de spontané et non d’artificiel. Nous ne sommes pas naturellement ou spontanément heureux. Le bonheur, individuel et collectif, est toujours un artefact : quelque chose qui présuppose une transformation du monde, et une négociation pour que cette transformation soit possible. La morale n’est pas la doctrine des bons sentiments, des attitudes, des émotions : c’est une théorie de la manipulation consciente et réfléchie du monde dans toutes ses parties, psychiques et matérielles.

Nous devrions également abandonner définitivement tout ce que nous avons volé et collecté sous le titre de «politique» et, surtout, tout ce qui nous ramène à l’héritage grec.

 Il est inutile de jeter les statues des négriers américains si nous continuons à prendre comme modèle une société, la société grecque, qui a fait de la politique la vie qui reste une fois qu’une masse d’esclaves a libéré une élite des nécessités de la vie considérées comme «matérielles». La polis grecque était une communauté qui était clairement, explicitement et fièrement esclave et sexiste. Débarrassons-nous de cet héritage. Cessons d’appeler «politique» l’effort de réflexion et de construction de la vie commune. Arrêtons de penser que pour vivre ensemble, nous devons être des mâles et des propriétaires de la vie des autres. Faute de quoi, tout ce qui se passe actuellement aux États-Unis ne servira à rien.

Il ne suffit pas de regagner la rue. Il ne suffit même pas de s’en prendre aux dirigeants actuels. Ils sont coupables, mais ce qui est coupable, c’est avant tout notre manque d’imagination pour envisager l’imbrication de notre bonheur collectif. Tâchons maintenant de donner un nouveau nom et une nouvelle forme au bonheur que nous voulons.

 

Mathieu Potte-Bonneville est philosophe et maître de conférences. Ancien président du Collège international de philosophie, il est spécialiste de l’œuvre de Michel Foucault dont il s’e orce de confronter les concepts aux enjeux contemporains ; attaché à multiplier les espaces de confrontation entre recherche, engagement et création, il a créé la Nuit des idées avec l’Institut français, et dirige actuellement le département culture et création du Centre Pompidou, à Paris. Derniers ouvrages publiés : Recommencer (Verdier, 2018), Voir Venir – Ecrire l’hospitalité, avec l’écrivaine Marie Cosnay (Stock, 2019). Les archives ouvertes de ses articles et interventions sont consultables à l’adresse mathieupottebonneville.fr

Emanuele Coccia est maître de conférences à l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales de Paris après avoir enseigné à l’Université de Fribourg-en- Brisgau, en Allemagne. Il a été professeur invité aux universités de Tokyo, Buenos Aires, Düsseldorf, Weimar et Munich et fellow à l’Italian Academy for Advanced Studies de Columbia University à New York. Spécialiste de philosophie médiévale, il a consacré un premier ouvrage à l’averroïsme latin et il a publié, avec Giorgio Agamben, une anthologie sur les anges dans le judaïsme, le christianisme et l’islam. Ses recherches évoluent ensuite vers la théorie de l’image et la nature du vivant. Parmi ses publications, traduites en plusieurs langues, La vie sensible (Payot et Rivages 2010), Le Bien dans les choses (Payot et Rivages 2013) La vie des plantes (Payot et Rivages 2016) et Métamorphoses (Payot et Rivages 2020) Il a été conseiller scienti que de l’exposition «Nous les arbres» à la Fondation Cartier pour l’art contemporain en 2019.