Dibattiti

6 | Brigitte Marin / Roberto Esposito

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viralità / immunità: due domande per interrogare la crisi

 

Roberto Esposito

Dialogare con Brigitte Marin sulla crisi terribile in cui siamo tutti precipitati mi fa particolarmente piacere. Intanto perché Brigitte ha lavorato con grande finezza culturale sulla mia città, Napoli. E poi perché guardare alla storia di Europa dalla prospettiva delle città si integra perfettamente con quel paradigma di immunizzazione su cui da tempo lavoro in una chiave che articola i linguaggi della filosofia, della storia, dell’antropologia e della medicina. Se si considera il processo di modernizzazione dal punto di vista dell’immunitas – e della sua relazione contrastiva con la communitas – il ruolo delle grandi città europee assume un’importanza strategica. Come ha mostrato sul piano genealogico Michel Foucault, la ristrutturazione delle città, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, costituisce l’inizio di quel processo di immunizzazione, allo stesso tempo securitario e sanitario, di cui oggi riconosciamo l’esito estremo. La delimitazione degli spazi cittadini, la costruzione di sanatori, ospedali, manicomi, carceri risponde all’esigenza immunitaria che percorre tutta l’epoca moderna, in sostituzione della protezione trascendente rappresentata dal rimando alla divinità nei secoli precedenti.

Oggi quel processo di immunizzazione perviene al suo punto limite, ben rappresentato dalle misure adottare nei nostri paesi – in Italia e in Francia, ma non solo – contro il coronavirus. La tesi che ho portato avanti nel volume proprio in questi giorni ripubblicato da Einaudi (di prossima traduzione francese da Seuil) Immunitas è che i sistemi immunitari, di tipo medico e giuridico sono allo stesso tempo necessari e pericolosi, quando oltrepassano una determinata soglia. Nessun corpo, individuale o collettivo, sarebbe in grado di vivere in mancanza di un sistema immunitario. Ciò è tanto più vero quando le società sono minacciate da un virus sconosciuto e letale come il coronavirus. In questo caso le misure di chiusura e di distanziamento appaiono, al momento, l’unica forma di difesa possibile nei confronti della malattia, in assenza di un vaccino. E del resto lo stesso vaccino costituisce una procedura immunitaria particolare, che immette nel corpo un frammento sostenibile dello stesso male che si vuole evitare per suscitare gli anticorpi contro di esso. Ma se la necessaria difesa dalla malattia cresce oltre una data misura, cancellando interamente la socialità o distruggendo la privacy, allora le conseguenze possono essere autodissolutive per la comunità. In situazioni come quella che stiamo vivendo le difese immunitarie sono inevitabili e insostituibili. Ma è altrettanto necessario che il difficile equilibrio tra communitas – cioè vita di relazione – ed immunitas non si spezzi a favore di quest’ultima, per non generare una sorta di malattia autoimmune sul piano sociale.

 

Brigitte Marin

Sono lieta che Roberto abbia iniziato questo dialogo ricordando uno dei nostri comuni affetti, ovvero la città di Napoli come luogo di vita e di studio. In un momento in cui la crisi sanitaria sta sconvolgendo profondamente la nostra vita quotidiana, il mio pensiero è stato spesso rivolto a questa città, così vicina ma improvvisamente irraggiungibile dal mio confinamento romano. Dal XVI secolo in poi, la sua formidabile crescita e la densità della sua popolazione, senza precedenti in Europa, l’ha esposta ad episodi epidemici devastanti: La peste del 1656 uccise la metà dei suoi circa 400.000 abitanti, il colera colpì più volte tra il 1830 e il 1890, e di nuovo nel 1973; altre crisi, forse meno conosciute perché meno studiate, come le febbri tifoidi provocate dalla carestia del 1764, o le devastazioni della tubercolosi alla fine del XVIII secolo, non sono meno essenziali per comprendere come le competenze mediche si siano via via affermate nella gestione dei territori e delle popolazioni, così decisive nella situazione in cui viviamo oggi.

Nelle ultime settimane gli storici sono stati regolarmente chiamati a esprimere il loro punto di vista sulle epidemie dei secoli passati, in un momento in cui, davanti ai nostri occhi attoniti, riemergono un vocabolario e gesti antichi che pensavamo appartenessero a epoche passate: quarantena, isolamento di interi territori dietro cordoni sanitari, quadrillage degli spazi pubblici da parte delle forze dell’ordine, misure di eccezione. Se le epidemie, con la loro serie di devastazioni spesso molto più terrificanti di quelle causate dal nuovo coronavirus SARS-CoV-2, hanno segnato periodicamente e per millenni la storia delle società, se la malattia è certamente un aspetto della condizione umana, l’analisi storica deve permettere di contestualizzare queste epidemie, che non possono essere ridotte all’eterno ritorno dell’identico, e di metterle in relazione con le modalità di organizzazione delle comunità, le loro economie e le loro interazioni con gli ambienti in cui si sviluppano: al di là delle vie di contagio, che, ieri come oggi, seguono il movimento di persone e merci, a volte legate alle imprese militari e alla colonizzazione, altre volte agli scambi favoriti dalla moltiplicazione e dalla crescente velocità dei trasporti, ogni epidemia rivela (dis)funzionamenti economici e sociali specifici del suo tempo che condizionano il comportamento di batteri o virus. La pandemia che stiamo vivendo segna senza dubbio una rottura storica, un inizio, in quanto fa parte di un ciclo accelerato di nuove zoonosi, e si manifesta con una diffusione di velocità e dimensioni senza precedenti che ha portato per la prima volta al confinamento, su scala globale, di 4 miliardi di persone.

Raramente propizie a grandi innovazioni, le crisi sanitarie in passato sono state soprattutto acceleratrici di tendenze già esistenti. Dunque, stiamo assistendo, come suggerisci tu, Roberto, al punto culminante, all’estrema avanguardia dei sistemi di protezione e di immunizzazione delle nostre società, fortificate nel corso dei secoli dalle nuove tecnologie, applicate con mezzi ed efficienza mai raggiunti prima nei mondi antichi, che potrebbero avere l’effetto di soffocare, fino all’annientamento, in nome del valore superiore del “vivente”, l’“animale sociale” che si nutre delle interazioni con i suoi simili? Il desiderio di salvare tutte le vite umane, qualunque esse siano e di per sé (il che, in considerazione del suo costo in termini di numero di vite, esclude ogni ipotesi di una strategia che permetta all’epidemia di diffondersi fino al raggiungimento di una possibile immunità collettiva), risponderebbe a un’aspettativa condivisa nelle nostre società. Non ha però impartito un orientamento altrettanto tassativo ai comportamenti del passato. Durante la peste del 1720, quando Marsiglia si riempie dei cadaveri di metà della sua popolazione sulle banchine e nelle strade, sono i galeotti che vengono prelevati dall’arsenale delle galere per sgomberare i corpi colpiti dalla peste, perché la loro vita è considerata meno importante di quella degli altri. La stessa peste è servita anche come laboratorio per perfezionare il controllo della mobilità e l’identificazione delle persone, utilizzando tecniche di registrazione che sono passate dallo stato di emergenza all’ordinario, portando a una maggiore sorveglianza, nei decenni successivi, di stranieri, vagabondi e prostitute. In questo equilibrio che hai ricordato, tra la protezione contro la minaccia virale e l’apertura al contatto umano, che forgia i legami delle comunità, che è sicuramente una grande sfida per il domani, che posto avrà la nostra vigilanza di fronte al rafforzamento delle misure di polizia, alla limitazione delle libertà, e alle tecnologie per il controllo mirato degli individui che rischiano di scardinare la solidarietà e i movimenti collettivi?

 

Roberto Esposito

Brigitte fa molto bene a sottolineare la necessità di storicizzare l’evento della pandemia che sta trasformando le nostre vite. Innanzi tutto c’è da chiedersi se si possa parlare di un vero ‘evento’ – inteso come qualcosa che rompe la successione storica per aprire una diversa stagione o almeno per modificare radicalmente quella precedente. Per dare una risposta ponderata a questa domanda – da cui discendono precise conseguenze in merito al nostro comportamento – è necessario mettere insieme le competenze dello storico e del filosofo, ma anche del sociologo, dell’economista, dello psicologo, oltre che quella del medico. Come sostiene Brigitte, nonostante i tanti precedenti di spaventose epidemie, come quelle della peste e del colera, la storia non si ripete mai in forma uniforme e prevedibile. La novità impressionante del coronavirus sta da un lato nel suo carattere assolutamente globale, mai sperimentato nelle epidemie precedenti, e dall’altro nella disponibilità, anch’essa del tutto inedita, di tecnologie capaci di controllarne la diffusione e – speriamo – di bloccarla. Il problema è che le strategie adottate da pressoché tutti i governi, occidentali e orientali, vale a dire la chiusura ed il distanziamento sociale, sono contraddittorie con l’orizzonte globale in cui siamo. C’è un limite oltre il quale il confinamento non è più possibile. Parlo sia del confinamento geo-politico sia di quello sociale. Immaginare una società in cui non si possa transitare da uno Stato all’altro all’interno dell’Unione Europea o addirittura da una regione all’altra in un singolo Stato per troppo tempo è impensabile. Conosco poche famiglie italiane che non abbiano dei figli all’estero per motivi di studio o di lavoro – io stesso ho una moglie francese, un figlio a Londra e una figlia a Berlino. Come è possibile confinarli a lungo dove si trovano ? La stessa difficoltà riguarda il piano sociale. Per fortuna oggi a nessuno verrebbe in mente di chiedere ai detenuti di occuparsi dei cadaveri come nella peste del 1720 – anche se in Italia questo triste servizio lo hanno fatto recentemente i militari. Ma non è neanche pensabile gestire una situazione di diseguaglianza esplosiva come quella che il virus sta creando tra quelli che sono economicamente garantiti e quelli che rischiano di precipitare nell’assoluta indigenza. Per esempio in Italia, durante il lockdown, tra i pochi che hanno continuato a lavorare sono stati gli immigrati di origine africana, costretti, per qualche euro al giorno, a raccogliere i pomodori nelle campagne meridionali campane e pugliesi. Senza quella raccolta la filiera alimentare in Italia si sarebbe interrotta. È possibile continuare a non concedere a queste persone la cittadinanza italiana ?

In questo senso credo che i problemi cui far fronte – al di là di quelli di stretta competenza medica – siano fondamentalmente due. Il primo risponde direttamente alla domanda su cui si chiude l’intervento di Brigitte. Si tratta, senza abbassare la soglia della necessaria protezione immunitaria, di tenere ferma la doppia difesa – ma in realtà si tratta della stessa cosa – della libertà personale e della comunità. A questo proposito non è inutile ricordare che nell’etimologia del termine ‘libertà’ nelle lingue indo-europee vi è qualcosa che richiama una crescita comune. Per questo, pur senza rifiuti pregiudiziali, è necessario diffidare dei dispositivi di sorveglianza come le applicazioni sugli smartphone, la moltiplicazione delle telecamere, i droni, che implicano una limitazione non solo della nostra libertà, ma anche della nostra socialità. In un recente articolo, intitolato ‘Le lezioni del virus’ e pubblicato anche in francese su ‘Mediapart’, Paul B. Preciado ricostruisce con efficacia la relazione tra immunizzazione medica e immunizzazione sociale. Tale relazione ha avuto un ruolo fondamentale nella strutturazione della società moderna, determinandone i passaggi attraverso una modificazione dei due modelli profilattici della lebbra e della peste richiamati anche da Foucault. Quarantena, isolamento, quadrillage – cui si aggiunge sinistramente il triage che ha rinnovato davanti agli ospedali nelle passate settimane una pratica originariamente militare nella scelta tra chi tenere in vita e chi abbandonare alla morte – si riproducono ancora oggi, penetrando, prima che nella società, nel nostro orizzonte mentale. In questo senso barriere, muri, confini che hanno a lungo separato Stati e comunità lungo linee etniche, generazionali, sociali stanno entrando perfino all’interno delle nostre case. E certamente nei nostri cervelli. Dobbiamo cercare di non farcene condizionare esteriormente ed interiormente. Oggi abbiamo il difficile compito di proteggere le vite nostre e quelle degli altri, senza imprigionare l’esistenza di tutti in una gabbia da cui diventi impossibile uscire. 

 

Brigitte Marin

Se questa crisi è senza precedenti, unica, se il passato non si ripete, come può esserci d’aiuto guardare al passato per affrontarla? Come sottolinea Roberto, gli approcci genealogici ci mostrano fino a che punto alcune delle misure amministrative e coercitive oggi in vigore (rigide restrizioni delle mobilità, divieto di attività sociali, chiusura di imprese, obbligo di esibire documenti di riconoscimento e certificati giustificativi, isolamento e confinamento domestico, quadrillage del territorio da parte delle forze dell’ordine, etc.) sono parte di un’evoluzione secolare delle nostre società, dei modi di governo e dell’esercizio del potere. Nel suo lavoro sulla formazione della società disciplinare (con le sue istituzioni, la scuola, l’ospedale, la prigione, la fabbrica, l’esercito, che vincolano i corpi e modellano i comportamenti), a partire dal XVIII secolo, in un contesto di crescita demografica e di crescita della popolazione fluttuante, Michel Foucault ha dimostrato che «uno dei primi oggetti della disciplina consiste nel fissare» (Surveiller et punir, 1975). Così, nel 1749, un ufficiale della gendarmeria, Guillauté, elaborò un sistema di registrazione dell’intera popolazione parigina, basato su una divisione uniforme della città in quartieri, strade, edifici e appartamenti, che combinava ubicazione, domicilio e registrazione; un assetto spaziale concepito per rendere più trasparente agli occhi della polizia l’intrico delle reti sociali della città. Poi si è sviluppata una tecnologia di potere detta di “sicurezza”, quella di governare gli uomini come esseri viventi, cioè tenendo conto del fatto biologico nel quadro delle strategie politiche. Ai  “meccanismi disciplinari”, di sorveglianza e di correzione si seguono, senza, ovviamente, farli scomparire, ma anzi attivandoli, dei “meccanismi di sicurezza” che si applicano alla popolazione nel suo insieme e che sono incentrati sulla statistica e sul trattamento della casualità, elementi in gioco nell’attuale gestione dell’epidemia. Tra le diverse tecniche di governo, la polizia moderna, come si affermava a partire dal XVIII secolo, ovvero, secondo le parole di un commissario parigino, «la scienza di governare gli uomini e di far loro del bene», ruota intorno a tre pilastri, “sicurezza, pulizia, economicità”, finalizzata a garantire la “felicità pubblica” attraverso la fornitura dei mezzi necessari per la sussistenza e la conservazione della comunità. Così, le questioni sanitarie, attraverso l’igiene, il risanamento urbano e rurale (“pulizia”) e la lotta contro le epidemie, hanno svolto un ruolo cruciale nel perfezionamento delle tecniche securitarie di governo delle persone. La gestione della crisi attuale offre di certo un banco di prova per testare e perfezionare le tecnologie di isolamento e di sorveglianza di intere regioni e persino di interi paesi. Dà anche la misura del consenso delle nostre società alla limitazione delle libertà per la crescente aspirazione a garantire la sicurezza in nome del bene comune, corollario della richiesta di protezione da parte delle autorità pubbliche, ma anche a causa della paura e del sospetto che potenzialmente trasforma ogni contatto sociale in un pericolo vitale.

La storia può essere utile anche per scongiurare analogie apparenti, spesso semplicistiche, per mettere in discussione le differenze, le discontinuità e i fattori di rottura. Attraverso le tecnologie di sorveglianza digitale disponibili, l’obiettivo non è tanto quello di fissare per controllare, come in passato, quanto quello di identificare e rintracciare grazie a mezzi digitali di portata inedita (dalla georeferenziazione al riconoscimento facciale) e grazie all’elaborazione di dati massivi, prodotti e resi disponibili già da anni dai nostri usi privati, ricreativi e professionali degli strumenti digitali. Questi strumenti, impiegati in modo ancora più massiccio e quotidiano nel contesto della crisi per collegare “a distanza” (telelavoro, formazione a distanza, videoconferenze di ogni tipo), con le evidenti disuguaglianze sociali che essi esasperano, ci invitano, senza necessariamente rigettarli apertamente, a recuperare l’importanza della scala locale, della vicinanza materiale e fisica e delle relazioni interindividuali. Torniamo brevemente alla peste di Marsiglia del 1720. Mentre la città passava più di due anni sotto un eccezionale comando militare, dotato di pieni poteri, le porte della città erano chiuse e rigorosamente sorvegliate, tutti i luoghi di ritrovo chiusi e i malati messi in quarantena, la comunità non ha mai rotto con forme di supervisione e regolamentazione locale, centinaia di “commissari”, “ispettori” residenti nei condomini, piccoli notabili del tessuto sociale del quartiere, fanno da mediatori su un terreno comune, ancorano, attraverso la loro funzione di staffette, le istituzioni al centro dello spazio sociale, coordinano la lotta al pericolo affidandosi ai legami sociali locali. Si pone così la questione del legame tra le tecniche dell’ immunità e i legami della comunità, che possono costituire a loro volta delle barriere per proteggere la società, nonché quella della capacità degli attori sociali, compresi i più svantaggiati, di agire, reagire e persino resistere, facendo affidamento su interazioni che richiedono interconoscenza, interdipendenza e, in breve, contatto umano.

Lascio l’ultima parola a un economista del Regno di Napoli, sul tema della “felicità pubblica” - tema centrale nel dibattito politico, economico e filosofico della seconda metà del Settecento, compresa la tutela della salute pubblica - che fa del bene comune un ideale di buon governo, ma sottolinea anche quanto questa “felicità” sia una questione di rapporti umani: “Che ciascuno resti persuaso, che per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello de’ suoi simili  (Giuseppe Palmieri, Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, 1787).

 

Brigitte Marin è storica e direttrice della Scuola Francese di Roma. Il suo lavoro si è concentrato sulla storia urbana dell’Europa moderna, in particolare su Napoli e Madrid nel XVIII secolo, sulla genesi dell’apparato di polizia, sulle politiche sanitarie e di sicurezza alimentare. Tra le sue recenti pubblicazioni : Polizia! Les Marseillais et les forces de l’ordre dans l’histoire (con C. Regnard, 2019); Les arrière-pays des villes de mer. Habitants, territoires, mobilités (XVIIe-XXIe siècle) (con E. Canepari e L. Salmieri, 2018); L’Europe. Encyclopédie historique (C. Charle, D. Roche, 2018).

 

Roberto Esposito insegna filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore. Tra i suoi più recenti libri, tutti editi da Einaudi e tradotti in diverse lingue, Communitas. Origine e destino della comunità (1998); Immunitas. Protezione e negazione della vita (2020); Bios. Biopolitica e filosofia (2004); Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (2007); Da fuori. Una filosofia per l’Europa (2016); Politica e negazione. Per una filosofia affermativa (2018); Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (2020)

 

 

 

 

 

Roberto Esposito

Je suis particulièrement heureux de pouvoir échanger avec Brigitte Marin sur la crise redoutable dans laquelle nous avons tous plongé. D’abord parce que Brigitte a travaillé avec une grande finesse culturelle sur ma ville, Naples. Et ensuite parce que regarder l’histoire de l’Europe du point de vue des villes s’intègre parfaitement à ce paradigme de l’immunisation sur lequel j’ai longtemps travaillé dans une optique qui conjugue les langages de la philosophie, de l’histoire, de l’anthropologie et de la médecine. Si l’on considère le processus de modernisation du point de vue de l’immunitas – et sa relation conflictuelle avec la communitas – le rôle des grandes villes européennes prend une importance stratégique. Comme l’a montré Michel Foucault sur le plan généalogique, la restructuration des villes entre la fin du XVIIIe et le début du XIXe siècle est le début de ce processus d’immunisation, à la fois sécuritaire et sanitaire, dont nous reconnaissons aujourd’hui l’issue extrême. La délimitation des espaces urbains, la construction de sanatoriums, d’hôpitaux, d’asiles, de prisons répond au besoin immunitaire qui se manifeste tout au long de l’époque moderne, remplaçant la protection transcendante représentée par la référence à la divinité dans les siècles précédents.

Aujourd’hui, ce processus d’immunisation atteint ses limites, bien représentées par les mesures adoptées dans nos pays – en Italie comme en France, mais pas uniquement – contre le coronavirus. La thèse que j’ai défendue dans le livre qui vient d’être réédité ces jours-ci par Einaudi (bientôt traduit en français par le Seuil) Immunitas est que les systèmes immunitaires, tant médicaux que juridiques, sont à la fois nécessaires et dangereux lorsqu’ils dépassent un certain seuil. Aucun corps, individuel ou collectif, ne pourrait vivre sans système immunitaire. Cela est d’autant plus vrai lorsque les sociétés sont menacées par un virus inconnu et mortel comme le coronavirus. En l’occurrence, les mesures de fermeture et d’éloignement semblent, pour l’instant, être la seule forme de défense possible contre la maladie en l’absence de vaccin. De plus, le vaccin lui-même constitue une procédure immunitaire particulière, qui introduit dans l’organisme un fragment viable [MB1] du même mal à éviter afin de susciter des anticorps contre celui-ci. Mais si la défense nécessaire contre la maladie se développe au-delà d’une mesure donnée, effaçant complètement la socialité ou détruisant la vie privée, alors les conséquences peuvent être autodestructrices pour la communauté. Dans des situations comme celle que nous vivons, les défenses immunitaires sont inévitables et irremplaçables. Mais il est tout aussi nécessaire que le difficile équilibre entre communitas – c’est-à-dire la vie de relation – et immunitas ne se brise pas en faveur de cette dernière, afin de ne pas générer une sorte de maladie auto-immune sur le plan social.

 

Brigitte Marin

Je suis heureuse que Roberto ait engagé ce dialogue en rappelant un de nos attachements communs, à savoir la ville de Naples, comme lieu de vie et d’étude. Au moment où la crise sanitaire bouleverse si profondément nos existences quotidiennes, mes pensées se sont souvent dirigées vers cette ville, si proche mais soudainement devenue inatteignable depuis mon confinement romain. A partir du XVIe siècle, sa formidable croissance et la densité de sa population, inédites en Europe, l’exposent à des épisodes épidémiques dévastateurs : la peste de 1656 fauche la moitié de ses quelque 400 000 habitants, le choléra la tourmente à plusieurs reprises entre les années 1830 et 1890, il frappe encore en 1973 ; d’autres crises, peut-être moins connues car moins étudiées, comme les fièvres typhoïdes dont la disette de 1764 a fait le lit, ou les ravages de la tuberculose à la fin du XVIIIe siècle, ne sont pas moins essentielles pour comprendre comment s’est progressivement affirmée l’expertise médicale dans les modes de gestion des territoires et des populations, si décisive dans la situation que nous vivons aujourd’hui.

Ces dernières semaines, des historiens ont régulièrement été sollicités pour s’exprimer sur les épidémies des siècles passés, au moment où resurgissaient, sous nos yeux sidérés, un vocabulaire et des gestes anciens que l’on croyait appartenir à des périodes révolues : quarantaine, isolement de territoires entiers derrière des cordons sanitaires, quadrillage de l’espaces public par les forces de l’ordre, mesures d’exception. Si les épidémies, avec leurs cortèges de dévastations souvent bien plus terrifiantes que celles provoquées par le nouveau coronavirus SARS-CoV-2, ont périodiquement et depuis des millénaires marqué l’histoire des sociétés, si la maladie est certainement un aspect de la condition humaine, l’analyse historique doit permettre de contextualiser ces surgissements qui ne sont pas réductibles à l’éternel retour du même, les mettre en relation avec les modes d’organisations des communautés, leurs économies, leurs interactions avec les milieux où elles se développent : au-delà des routes de la contagion, qui suivent, hier comme aujourd’hui, les déplacements des hommes et des biens, tantôt liés aux entreprises militaires et aux colonisations, tantôt aux échanges favorisés par la multiplication et la rapidité croissante des transports, chaque épidémie révèle des (dys)fonctionnements économiques et sociaux propres à son temps qui conditionnent le comportement des bactéries ou des virus. La pandémie que nous vivons marque sans doute une rupture historique, un commencement, en ce qu’elle s’inscrit dans un cycle accéléré de nouvelles zoonoses, et se manifeste par une diffusion d’une rapidité et d’une ampleur inédites ayant conduit pour la première fois au confinement, à l’échelle mondiale, de 4 milliards de personnes.

Rarement propices aux grandes innovations, les crises sanitaires ont surtout été, dans le passé, des accélérateurs de tendances déjà présentes. Alors, assiste-t-on, comme tu le suggères, Roberto, au point d’aboutissement, à la pointe extrême de systèmes de protection et d’immunisation de nos sociétés, fortifiés au cours des âges par de nouvelles technologies, appliqués avec des moyens et une efficacité jamais atteints dans les mondes anciens, qui pourraient avoir l’effet de suffoquer, jusqu’à l’anéantissement, au nom de la valeur supérieure du « vivant », l’ « animal social » qui se nourrit d’interactions avec ses semblables ? La volonté de sauver toute vie humaine, quelle qu’elle soit et en soi (qui écarte, au regard de son coût en nombre de vies, toute hypothèse de stratégie laissant se propager l’épidémie jusqu’à ce que soit atteinte une éventuelle immunité collective), répondrait à une attente partagée dans nos sociétés. Elle n’orientait pas de façon aussi impérative les comportements anciens. Lors de la peste de 1720, quand Marseille se jonche des cadavres de la moitié de sa population, sur les quais, dans les rues, ce sont les forçats que l’on tire de l’arsenal des galères pour évacuer ces corps pestiférés parce que l’on considère que leurs vies comptent moins que d’autres. Cette même peste a par ailleurs servi de laboratoire pour perfectionner le contrôle des mobilités et l’identification des personnes, par des techniques d’enregistrement qui ont glissé de l’état d’urgence aux temps ordinaires pour aboutir à une surveillance accrue, dans les décennies suivantes, des étrangers, des vagabonds, des prostituées. Dans cet équilibre que tu évoques, entre la protection contre la menace virale et l’ouverture aux contacts humains qui tisse les liens des communautés, ce qui est sûrement un grand défi de demain, quelle place devra tenir notre vigilance face au renforcement des dispositifs policiers, à la limitation des libertés, aux technologies de contrôle ciblé des individus propres à briser les solidarités et les mouvements collectifs ?

 

Roberto Esposito

Brigitte a parfaitement raison de souligner la nécessité d’historiciser l’événement pandémique qui est en train de transformer nos vies. Tout d’abord, nous devons nous demander si on peut parler d’un véritable “événement” – compris comme une rupture de la succession historique qui ouvre une autre phase ou, du moins, qui change radicalement la précédente. Afin de donner une réponse réfléchie à cette question – qui entraîne des conséquences certaines sur notre comportement – il est nécessaire de réunir les compétences de l’historien et du philosophe, mais aussi du sociologue, de l’économiste, du psychologue, ainsi que du médecin. Comme le souligne Brigitte, malgré les nombreux précédents d’épouvantables épidémies, telles que la peste et le choléra, l’histoire ne se répète jamais sous une forme uniforme et prévisible. L’impressionnante nouveauté du coronavirus réside d’une part dans son caractère absolument mondial, jamais connu lors des précédentes épidémies, et d’autre part dans la disponibilité, elle aussi totalement nouvelle, de technologies capables de contrôler sa propagation et – espérons-le – de la bloquer. Le problème est que les stratégies adoptées par presque tous les gouvernements, occidentaux et orientaux, c’est-à-dire la fermeture et la distanciation sociale, sont en contradiction avec l’horizon mondial dans lequel nous nous trouvons. Il existe une limite au-delà de laquelle le confinement n’est plus possible. Je parle d’un enfermement à la fois géopolitique et social. Il est impensable d’imaginer une société dans laquelle on ne peut pas passer d’un État à un autre au sein de l’Union européenne, ni même d’une région à une autre au sein d’un même État pendant trop longtemps. Je connais peu de familles italiennes sans enfants à l’étranger pour faire des études ou travailler – j’ai moi-même une femme française, un fils à Londres et une fille à Berlin. Comment est-il possible de les confiner longtemps là où ils se trouvent ? La même difficulté concerne le plan social. Heureusement, personne ne penserait aujourd’hui à demander à des détenus de s’occuper des cadavres comme lors de la peste de 1720 – même si en Italie ce triste service a été rendu récemment par les militaires. Mais il n’est même pas concevable de gérer une situation d’inégalité explosive telle que celle créée par le virus entre ceux qui sont économiquement aisés et ceux qui risquent de plonger dans la pauvreté absolue. Par exemple, en Italie, pendant la période de confinement, parmi les quelques personnes qui ont continué à travailler, il y avait des immigrants d’origine africaine, obligés, pour quelques euros par jour, de cueillir des tomates dans la campagne du sud de la Campanie et des Pouilles. Sans cette récolte, la chaîne alimentaire en Italie aurait été interrompue. Est-il possible de continuer à ne pas accorder à ces personnes la citoyenneté italienne ?

En ce sens, je crois qu’il y a fondamentalement deux problèmes à affronter – au-delà de ceux de la stricte compétence médicale. Le premier répond directement à la question sur laquelle se conclut l’intervention de Brigitte. Il s’agit, sans abaisser le seuil de la nécessaire protection immunitaire, de conserver la double défense – mais en réalité il s’agit de la même chose – de la liberté individuelle et de la communauté. À cet égard, il n’est pas inutile de rappeler que dans l’étymologie du terme “liberté” dans les langues indo-européennes, il y a quelque chose qui rappelle une croissance commune. C’est pourquoi, sans rejet préjudiciable, il faut se méfier des dispositifs de surveillance tels que les applications sur les smartphones, la multiplication des caméras, les drones, qui impliquent une limitation non seulement de notre liberté, mais aussi de notre socialité. Dans un article récent, intitulé “Les leçons du virus” et publié également en français dans “Mediapart”, Paul B. Preciado retrace efficacement le lien entre l’immunisation médicale et sociale. Cette relation a joué un rôle fondamental dans la structuration de la société moderne, conditionnant sa progression par une modification des deux modèles prophylactiques de la lèpre et de la peste également évoqués par Foucault. La quarantaine, l’isolement, le quadrillage – auxquels s’ajoute sinistrement le triage qui a renouvelé devant les hôpitaux ces dernières semaines une pratique initialement militaire dans le choix entre qui garder en vie et qui abandonner à la mort –- se reproduisent encore aujourd’hui, pénétrant, en amont de la société, dans notre horizon mental. En ce sens, des barrières, des murs, des frontières qui ont longtemps séparé les États et les communautés selon des critères ethniques, générationnels et sociaux, entrent même dans nos foyers. Et assurément dans nos cerveaux. Il faut essayer de ne pas se laisser conditionner extérieurement et intérieurement. Aujourd’hui, nous avons la difficile tâche de protéger notre propre vie et celle des autres, sans enfermer tout le monde dans une cage dont il deviendrait impossible de sortir. 

 

Brigitte Marin

Si cette crise est inédite, unique, si le passé ne se répète pas, en quoi peut nous aider à l’affronter le regard sur le passé ? Comme le remarque Roberto, les approches généalogiques nous montrent combien certaines des mesures administratives et coercitives en vigueur aujourd’hui (limitation stricte de déplacements, interdiction des activités sociales, fermeture des commerces, port obligatoire de documents d’identification et d’attestations justificatives, isolement et réclusion domestiques, quadrillage territorial des forces de l’ordre…) s’inscrivent dans le prolongement d’une évolution pluriséculaire de nos sociétés, des modes de gouvernement et d’exercice du pouvoir. Dans ses travaux sur la formation de la société disciplinaire (avec ses institutions, l’école, l’hôpital, la prison, l’usine, l’armée, qui contraignent les corps et modèlent les comportements), à partir du XVIIIe siècle, dans un contexte de poussée démographique et de croissance de la population flottante, Michel Foucault a montré que « l’un des premiers objets de la discipline, c’est de fixer » (Surveiller et punir, 1975). C’est ainsi qu’un officier de maréchaussée, Guillauté, imagine en 1749 un système de fichage de toute la population parisienne, fondée sur un découpage uniforme de la ville en quartier, rue, immeuble, appartement, associant localisation, domicile et enregistrement ; un arrangement spatial destiné à rendre la ville aux indémêlables réseaux sociaux plus transparente aux yeux de la police. Puis, s’est développée une technologie de pouvoir dite de « sécurité », celle du gouvernement des hommes en tant qu’êtres vivants, à savoir la prise en compte du fait biologique à l’intérieur des stratégies politiques. Aux « mécanismes disciplinaires », de surveillance et de correction, font suite, sans les faire disparaître bien sûr, mais plutôt en les activant, des « dispositifs sécuritaires » qui s’appliquent à la population prise dans son ensemble et au cœur desquels prennent place la statistique, le traitement de l’aléatoire, autant d’éléments à l’œuvre dans la gestion actuelle de l’épidémie. Parmi diverses techniques de gouvernement, la police moderne, telle qu’elle s’affirme à partir du XVIIIe siècle à savoir, selon la formule d’un commissaire parisien, « la science de gouverner les hommes et de leur faire du bien », s’articule autour de trois piliers, « sûreté, netteté, bon marché » visant à garantir la « félicité publique » par la disposition des moyens nécessaires à la subsistance et à la conservation de la communauté. Ainsi, les questions de santé, à travers l’hygiène, la salubrité des villes et des campagnes (« netteté ») et la lutte contre les épidémies, ont joué un rôle crucial dans le perfectionnement des techniques sécuritaires de gouvernement des populations. La gestion de la crise actuelle offre assurément un banc d’essai pour tester et affiner des technologies d’isolement et de surveillance de régions, voire de pays entiers. Elle donne aussi la mesure du consentement de nos sociétés à la limitation des libertés en raison d’une aspiration croissante à la garantie de sécurité au nom du bien commun, de la demande corollaire de protection vis-à-vis des pouvoirs publics, mais aussi en raison de la peur et du soupçon qui transforment potentiellement tout contact social en danger vital.

Ce à quoi peut servir l’histoire, c’est aussi à se garder des apparentes similitudes, souvent réductrices, pour s’interroger sur les différences, les discontinuités, les facteurs de rupture. Avec les technologies digitales de surveillance à disposition, l’objectif est moins de fixer pour contrôler, comme par le passé, que d’identifier et de tracer grâce à des moyens numériques d’ampleur inédite (du géoréférencement à la reconnaissance faciale) et grâce au traitement de données massives, produites et rendues disponibles depuis déjà des années par nos usages privés, ludiques et professionnels des outils numériques. Ceux-ci, déployés encore plus massivement et plus quotidiennement dans le contexte de la crise pour se mettre en relation « à distance » (télétravail, apprentissages distanciels, visioconférences de toute nature), avec les criantes inégalités sociales qu’ils exaspèrent, invitent a contrario, sans nécessairement les récuser en bloc, à redonner de l’importance à l’échelle locale, à la proximité matérielle et physique, aux relations interindividuelles. Faisons un bref retour sur la peste de Marseille de 1720. Alors que la ville passe pendant plus de deux ans sous un commandement militaire exceptionnel, doté des pleins pouvoirs, que les portes de la ville sont closes et rigoureusement gardées, tout lieu de rassemblement fermé et les malades mis en quarantaine, la communauté ne rompt jamais avec des formes d’encadrement et de régulation de proximité, des centaines de « commissaires », des « inspecteurs » résidant dans les ilots d’habitation, petits notables inscrits dans le tissu social du voisinage, agissent comme médiateurs sur un terrain partagé, ancrent, par leur fonction de relais, les institutions au cœur de l’espace social, coordonnent la lutte contre le péril en s’appuyant sur les liens sociaux locaux. Voilà qui pose la question de l’articulation entre les techniques de l’immunité et les liens de la communauté qui peuvent être eux-mêmes des barrières pour protéger la société, comme celle de la capacité des acteurs sociaux, y compris des plus démunis, à agir, réagir, voire résister, en s’appuyant sur des interactions faisant appel à l’interconnaissance, à l’interdépendance, en somme au contact humain.

Je laisserai le mot de la fin à un économiste du Royaume de Naples, au sujet de la « félicité publique » – un thème central dans le débat politique, économique et philosophique de la seconde moitié XVIIIe siècle, incluant la tutelle de la santé publique – qui fait du bien commun un idéal de bon gouvernement, mais souligne aussi combien cette « félicité » est une affaire de relations humaines : « Che ciascuno resti persuaso, che per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello de’ suoi simili (« Que chacun soit persuadé, que pour trouver son propre bien il faut le chercher en procurant celui de ses semblables », Giuseppe Palmieri, Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, 1787).

 

Brigitte Marin est historienne et directrice de l’École française de Rome. Ses travaux ont porté principalement sur l’histoire urbaine de l’Europe moderne, en particulier sur Naples et Madrid au XVIIIe siècle, sur la genèse des appareils de police, les politiques sanitaires et de sécurité alimentaire. Parmi ses publications récentes : Police ! Les Marseillais et les forces de l’ordre dans l’histoire (avec C. Regnard, 2019) ; Les arrière-pays des villes de mer. Habitants, territoires, mobilités (XVIIe-XXIe siècle) (avec E. Canepari et L. Salmieri, 2018) ; L’Europe. Encyclopédie historique (C. Charle, D. Roche, 2018). 

 

Roberto Esposito enseigne la philosophie théorique à l’Ecole Normale Supérieure. Parmi ses livres les plus récents, tous publiés par Einaudi et traduits en plusieurs langues, Communitas. Origine et destin de la communauté (1998) ; Immunitas. Protection et négation de la vie (2020) ; Bios. Biopolitique et philosophie (2004) ; Pensée vivante. Origine et actualité de la philosophie italienne (2007) ; De l’extérieur. Une philosophie pour l’Europe (2016) ; Politique et négation. Per una filosofia affermativa (2018) ; Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (2020)