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Jean-Pierre Melville

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Jean-Pierre Melville

“Nome d’arte di Jean-Pierre Grumbach, regista cinematografico e produttore francese, nato a Parigi il 20 ottobre 1917 e morto ivi il 2 agosto 1973. È considerato il maestro francese del noir e uno dei precursori della Nouvelle Vague. Tra i più singolari autori della storia del cinema, con Le Samouraï (1967; Frank Costello faccia d’angelo), ritenuto il suo capolavoro, ha influenzato registi quali Kitano Takeshi, John Woo, i fratelli Coen e Jim Jarmusch.

La sua gioventù fu caratterizzata meno dagli studi che da una frequentazione assidua delle sale cinematografiche. Cinefilo fin dall’infanzia (a sei anni ricevette in dono dai genitori un proiettore), predilesse i film americani, e particolarmente i noir della Warner Bros. Arruolato nell’esercito nel 1937, partì per Marsiglia dopo la sconfitta della Francia ed entrò nella Resistenza. Dopo sei mesi passati nelle carceri spagnole, M. fuggì in Inghilterra; partecipò poi alla campagna d’Italia e di Francia nelle truppe gaulliste di France libre. Durante la clandestinità, adottò il nome di Melville in omaggio all’autore di Moby Dick. Tornato alla vita civile, il rigido sistema sindacale dell’epoca lo obbligò a mettersi in proprio: la fondazione nel 1946 della propria casa di produzione, l’Organisation générale cinématographique, e la successiva edificazione di teatri di posa fecero di M. il regista indipendente per eccellenza del cinema francese. Realizzato un primo cortometraggio (Vingt-quatre heures de la vie d’un clown, 1946), Melville si rese celebre con l’adattamento di un testo di Vercors, Le silence de la mer (1949; Il silenzio del mare). Girato con mezzi ridottissimi nella casa dello scrittore e senza neppure detenere i diritti del libro, il film si distingue per la fedeltà alla matrice letteraria, optando per forme di radicalità linguistica, quale l’onnipresenza della voce narrante, e per la fotografia di Henri Decaë, che resterà il più fedele collaboratore di Melville. Impressionato dal film, Jean Cocteau chiese di adattare un suo romanzo al regista, il quale realizzò Les enfants terribles (1950; I ragazzi terribili). Nel 1956, Melville girò una delle sue opere più riuscite, Bob le flambeur (Bob il giocatore). È la prima incursione nel genere noir: il film racconta l’organizzazione di una rapina nel casinò di Deauville che poi fallisce, sebbene il finale sia sorprendentemente lieto. Ma a contare non è tanto la storia ‒ che risente dell’influenza di The asphalt jungle (1950) di John Huston ‒ quanto l’uso di esterni e di luci naturali teso a restituire la Montmartre parigina d’anteguerra, con i suoi malviventi solitari dal ferreo codice d’onore. Anche in tal caso, la fotografia di Decaë è determinante nel privilegiare la luce crepuscolare, una cifra visiva che avrebbe caratterizzato tutta la produzione seguente di Melville. Il film, realizzato in totale autonomia produttiva e senza attori di richiamo, colpì i futuri autori della Nouvelle vague, di cui Bob le flambeur è certamente uno dei principali precursori, insieme a Deux hommes dans Manhattan (1959; Le jene del quarto potere), girato nelle strade di New York. In quest’ultimo film Melville comparve anche come coprotagonista, presentandosi agli occhi del pubblico come un’icona filoamericana in parte autoironica. Stetson, impermeabile e occhiali scuri: così sarebbe apparso in À bout de souffle (1960; Fino all’ultimo respiro) di Jean-Luc Godard.

Ma l’individualista Melville sconfessò, tacciandoli di dilettantismo, i giovani ribelli della Nouvelle Vague, che d’altro canto non videro di buon occhio le opere successive del regista, solo in apparenza più convenzionali. A partire da Léon Morin, prêtre (1961; Léon Morin, prete ‒ La carne e l’anima), Le doulos (1963; Lo spione) e L’aîné des Ferchaux (1963; Lo sciacallo), interpretati da Jean-Paul Belmondo, Melville iniziò a lavorare con divi affermati, proseguendo con Lino Ventura in Le deuxième souffle (1966; Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide) e Alain Delon in Le Samouraï. Quest’ultimo film colpisce per la trama poliziesca estremamente rarefatta, per l’attenzione concessa a ogni piccolo dettaglio, per la gestualità ridotta al minimo ed elevata dalla messinscena a rituale ermetico. Il conflitto tra polizia e criminalità diventa pura astrazione visiva, contrapposizione più geometrica (per non dire simmetrica) che morale. Melville utilizza la figura di Delon come una superficie senza asperità i cui attributi (cappello, impermeabile, pistola) contano almeno quanto i brevissimi dialoghi e le azioni ripetitive: icone consapevolmente fantasmatiche di un cinema e di un immaginario votato alla scomparsa, se non al suicidio harakiri, i personaggi di Melville tenderanno sempre più a divenire ombre di sé stessi. L’autore è allora contemporaneo di Sam Peckinpah e Sergio Leone, e non è un caso se il film seguente si intitola L’armée des ombres (1969; L’armata degli eroi), cupa descrizione autobiografica di un gruppo di resistenti. Nel 1970, Melville ottenne il suo più grande successo con Le cercle rouge (I senza nome), che si avvale della presenza di Yves Montand, Alain Delon e Gian Maria Volonté nel ruolo di rapinatori braccati dal poliziotto interpretato da Bourvil. Ma sia le guardie sia i ladri sanno che il gioco è finito e che la loro esistenza è ormai puramente virtuale: il mondo è cambiato, la Francia degli anni Settanta non è l’America del proibizionismo, e neppure Hollywood crede più alla loro esistenza. Sempre più inerti, alle maschere ‘senza nome’ di Melville non resta che aspettare il nulla, nell’ultima speranza che venga loro concessa la consolazione di una bella morte. Un flic (1972; Notte sulla città) portò alle estreme conseguenze la rarefazione dei film precedenti e, malgrado la presenza di interpreti come Alain Delon e Catherine Deneuve, non venne apprezzato dalla critica né amato dal pubblico.”

di Altiero Scicchitano - Enciclopedia del Cinema Treccani (2004)